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«Everything was cool», il papà degli X-Men, Chris Claremont incontra il pubblico di LCG2019

Al Press Cafe di LCG2019 Chris Claremont, padre degli X Men, affronta caratterizzazione e creazione di personaggi immortali e parla della commistione fra autori, disegnatori, attori, e editor.

Furio DETTI per RMDN

Lucca 30 ottobre 2019

Chris CLAREMONT viene dal teatro, è approdato come autore al mondo Marvel, ha creato gli X-Men, successo mondiale a nuvolette. I suoi personaggi sono il fumetto più venduto negli Stati Uniti (X-Men n.1, per le matite di di Jim Lee). È con John L. Byrne nella “Will Eisner Hall of Fame” e davanti alla platea numerosissima di giornalisti sfodera verve, savoir faire da consumato attore, aneddoti e risate per un incontro memorabile coi giganti dei comics.

La prima domanda è posta dallo staff di LCG2019 – Questa edizione di LCG celebra la “comunità che abbraccia la diversità”, un tema cardine della saga degli X-Men, e un argomento di bruciante attualità: cosa ne pensa Chris Claremont? «Io lavoro a New York, una comunità in cui la diversità è totale: scendi in strada e, passando da un quartiere all’altro, fai il giro del mondo. La cucina viene da tutti i paesi, e ovviamente si mangia anche italiano [ride].» Ne approfitta per raccontarci che a New York «non si trova la “Chicago Deep Ditch Pizza”, una pizza clamorosamente spessa, alta, iperfarcita. John Stewart mi ha insegnato come mangiarla correttamente: ne prendi un trancio, lo ripieghi e te lo infili in gola, ma il sindaco di New York, che viene da Boston se la mangia con coltello e forchetta!»

Tutta questa diversità è un tesoro per lo scrittore di comics: «New York è l’accesso a ogni cosa: guardi le persone, le ascolti, nei bar, sul tram, in metropolitana, per strada. Prendi tutta questa varietà umana, che toglie il fiato, e la usi!» Chi è lo scrittore di successo? «Chiunque sappia rubare qualsiasi cosa da tutto ciò che lo circonda e da chiunque gli stia vicino, quindi state attenti: ho con me un bloc note e non sto scherzando! [ridiamo]»

Quindi Claremont affronta la serie dei Nuovi Mutanti con Bill Sienkiewicz, scherzando prima senza pietà sull’impero Disney: «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana… No, non ridete, siamo tutti proprietà Disney e quindi oggi lo posso dire…» perché il mondo dei comics è diventato fluido, un multiverso in cui ogni personaggio è contaminato con altri mondi, per questo è stato così interessante lavorare, prima che succedesse tutto questo, con un artista del calibro di Bill, capace di esprimere queste innovazioni decenni prima che diventassero la regola. Sienkiewicz è sempre stato un artista in grado di precorrere i tempi attuali: «Trentasei anni fa ho creato con Bill questa serie [New Mutants], fantastica perché aveva uno stile del tutto inedito, surreale, astratto, era la cosa più lontana dall’idea di comics del momento.» Poi, per gli 80 anni della Marvel gli hanno chiesto di tornare insieme su questa storia; «Vedete bene, un tempo facevamo un numero al mese, oggi ci sono voluti 35 anni per la nuova uscita …è che non siamo più dei ragazzini! La cosa che più mi ha sopreso di tutta questa faccenda è l’entusiasmo di Bill nell’aver accettato il lavoro».

Claremont copre quindi con i giornalisti presenti un vasto raggio di argomenti. Da Patrick Stewart al fandom, alla caratterizzazione e ideazione dei personaggi, a un commosso ricordo di Stan Lee…

Essendo stato egli stesso da giovane un attore ricorda che ammirava moltissimo sia Patrick Stewart, venuto come lui a Lucca in questa edizione dei Comics, sia Ian McKellen, e descrive il suo entusiasmo con una caratteristica espressione “That was coooool!”, poi sogghigna: «Noterete che non ho detto nulla dei film degli X Men: alcuni erano molto belli, come *Giorni di un futuro passato*, altri meno. …certo – [scherza] – mi sarebbe piaciuto avere il nome mio e di John Byrne a caratteri cubitali nei credits.” Su *Dark Phoenix* dice che è stato un ottimo film e che si può assolvere Simon Kinberg da ogni addebito; «la sua era un’ottima sceneggiatura e ha girato un gran film, nonostante sia stato criticato. Beh… Benvenuti a Hollywood!’»

Un autore lavora sui personaggi e quelli, come il pubblico non cambiano mai: «Io non ho un pubblico di riferimento: voglio tutti, in tutto il mondo! Venendo qui, in Italia a Lucca, mi si è avvicinata una bambina di otto anni che mi ha chiesto di firmare una copia degli X Men. Questo è il pubblico ideale. Se le motivazioni dei personaggi sono vere, realistiche, il pubblico lo sente e apprezza e decreta il successo di una serie o un film. Perché siamo tutti mossi dalle stesse intenzioni e motivazioni.»

Chris parla anche dell’importanza dei vincoli della censura per stimolare la creatività: «Quando ho iniziato la mia carriera, l’attività dei fumettisti era governata dalle regole della Comics Code Authority, c’erano delle regole su quello che fosse appropriato per dei bambini. Questo non è mai stato un problema per noi, se scrivevamo in modo da avere ‘profondità’ nella storia. Se leggi una di queste storie ben scritte, a 12 anni ci vedi solo certe cose; quando ci torni sopra a 25, o a 40 con dei figli a carico, vedi aspetti che non avevi mai preso in considerazione. Quei limiti ci hanno insegnato, forzandoci la mano, a dover scrivere con sottigliezza e in profondità. È riuscito a Miller, Samuelson e sono riuscito a farlo anche io.» I fumetti quindi sono un’opera multilivello: accessibili ai bambini ma sono fruibili e godibili a ogni età. «Poi per immaginare Batman nudo non mi serve che sia disegnato. Beh… questo poi mi manderà dal prete in confessionale, ma è un’altra storia…»

Come nascono i suoi personaggi? Quale è il segreto della loro forza? «Caratterizzare. Nightcrawler è stato a lungo uno dei miei personaggi preferiti. Sembra un demone ma è quello più profondamente religioso della serie. Per farla breve, la sua visione è: Io sono così perché l’ha deciso Dio. Chi sono io per discutere il volere di Dio? Se Dio è responsabile di ciò ce sono tanto vale godersela… Dal punto di vista dello scrittore, a quel paese il cliché, il personaggio è cool. Invece Byrne non capiva questo aspetto, a lui – essendo canadese – piaceva Wolverine, così per lui Logan doveva diventare – per dirla all’americana – ‘lo spaccaculi più cazzuto che ci fosse!’ un vero badass. Invece per Miller Wolverine poteva essere un rischio di ricadere nel cliché, nel luogo comune. Quando è stato creato aveva dei guanti artigliati, così che chiunque indossasse quei guanti poteva fare come lui. Insomma, i guanti stavano a Logan come l’armatura stava a Tony Stark. Se la indossi diventi Iron Man. Non riuscivo a trovare una via d’uscita. Nel numero 98 è apparso uno sketch con Wolverine i cui artigli fuoriuscivano direttamente dal suo corpo. Inizialmente ho reagito provando shock… La mia seconda reazione, quella giusta, è stata: That was cooooool!, Awful but cool. Orribile, ma fichissimo!»

Esattamente come quando nel film a Logan viene chiesto se sfoderare gli artigli ‘fa male’: «Lui guarda lei, guarda la strada, riguarda il suo pugno, riguarda la strada e dice: ‘Ogni volta!’ Sono saltato sulla poltroncina alla prima del film, gridando ‘Sì!!!’. Mia moglie mi ha menato. [ridiamo] A me non importava, questo è stato il momento in cui, non solo il personaggio, ma anche Hugh Jackman si è caratterizzato come Wolverine. È così che deve funzionare! Ogni volta che Wolverine usa la sua arma si pugnala da solo! Si tratta di un momento ogni volta cruciale, specifico, va tenuto sotto controllo e va tenuto distinto e riconoscibile nella storia come nel personaggio. Del resto, sotto sotto, Wolverine deve soffrire un po’ …non è una brava persona neanche lui!»

La programmazione delle uscite rispetto alla continuity dei personaggi è stata un problema?
«No. Considero tutto una sola storia, esattamente come la vita. Come la vita le storie cambiano, ma hanno un seguito, imprevisti inclusi, così come succederebbe nella vita vera. Così va la vita.”

Ricordando Stan Lee: «Parlando di autori, artisti e editor la coppia perfetta erano Stan Lee e Jack Kirby coi Fantastici 4. Jack aveva centinaia di idee e Stan guardava la storia e la potava regolarmente, tagliando un mucchio di cose in modo che tutto arrivasse direttamente al lettore. Jack detestava questa cosa. La prese sul piano personale, ma pensava pure che così facendo Stan gettasse via molte cose buone. Passò alla DC e si dedicò ai Nuovi Déi. Ma tutta quest’accelerata di trovate stancò velocemente i lettori. Per quanto egli fosse un grande autore, nessuno poteva seguirlo e fu la fine della storia. Kirby tornò alla Marvel, ma grazie a quell’esperienza la DC sfruttò l’eredità di Kirby per 35 anni. Everything was cool, ma creare una buona storia è sinergia: la gente giusta, nel posto giusto, al momento giusto. Non succede spesso. Il talento sta nel capirlo».

 

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