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Zinedine ZIDANE


Il quartiere de La Castellane è uno di quei posti da cui anche la polizia preferisce stare alla larga. La dolcezza del clima, i colori e i profumi del Mediterraneo riescono un poco a rendere meno opprimente quei palazzoni a nord della città dove, comunque, la vita può essere maledettamente difficile anche sotto il cielo terso del sud della Francia. Meglio, allora, se a fare da scudo ci sono anche il calore e l’unione di una famiglia come quella di Smail e Malika Zidane.
Ha dovuto lasciare l’Algeria, Smail, perché dopo l’indipendenza nessuno avrebbe perdonato un Harki (così sono chiamati gli algerini che avevano combattuto a fianco dei francesi). Si è stabilito a Marsiglia: lavora come magazziniere ed ha già altri quattro figli (tre maschi: Djamel, Farid e Nordine e una femmina: Lila) quando, il 23 giugno del 1972, nasce Yazide Zinedine Zidane.
Una tribù affiatata, quella di casa Zidane, dove la semplicità e il rispetto sono basilari regole di vita: «Devo tutto ai miei genitori – ammette senza alcun pudore Zidane che ha regalato a papà e mamma una splendida villa – perché mi hanno impartito un’educazione severa ma giusta e, soprattutto, mi hanno insegnato il rispetto, l’umiltà, la capacità di condividere tutto».
Yaz (così lo aveva soprannominato la sorella Lila) cresce tra abbuffate di calcio in TV, poca voglia di studiare e tanto, tanto sport attraverso cui scaricare la sua grande vitalità. Calcio, certo, ma anche discese mozzafiato con lo skate-board e judo: «Lo ha praticato fino a undici anni, diventando cintura arancione: era sempre pieno di lividi ma non si arrendeva mai».
Ed era anche instancabile al punto che anche dopo aver firmato il primo tesserino, a otto anni, per il club di Saint-Henri, continuerà a praticare anche il judo: «Un sabato – racconta il padre – siamo rientrati molto tardi da una gara di judo e lui avrebbe dovuto alzarsi cinque ore dopo per giocare un torneo di calcio. Ero convinto che non ce l’avrebbe fatta e, invece si è presentato regolarmente ed ha corso fino a quando, alla fine della terza partita, è svenuto».
La storia di Zidane è la risposta più efficace a tutti coloro che vorrebbero ridurre il calcio a tattica e numeri fin dai vivai giovanili, a quelli (e ce ne sono sempre di più) disposti a tarpare la fantasia di un talento perché, nelle partite tra ragazzi di otto o nove anni, non da via la palla al momento giusto. La scuola di Zidane è stata quell’incomparabile fucina di talenti che sa essere solo la strada.
È lì, in quelle interminabili partite tra coetanei, dove la coppa in palio era una bottiglia di plastica rivestita d’oro e l’arbitro che fischiava la fine erano i richiami delle madri, che Zidane ha affinato la sua incomparabile tecnica: «L’ho appresa sulla strada, giocando per divertimento e per impressionare gli amici, creando movenze solo mie. È lì che si imparano le cose più belle e inimitabili».
Già allora, nelle squadre dei ragazzini, Zidane era un giocatore insostituibile: «È vero – conferma Malek, l’amico inseparabile che lo ha seguito anche a Torino – lui era il più giovane ma era il più bravo di tutti: sembrava avesse una mano al posto del piede, tanto la palla gli rimaneva incollata. E vedeva il gioco meglio di chiunque altro».
Ma quella della strada è stata anche una grande scuola per il carattere. Non credete, infatti, a quelli che vi raccontano che Zinedine Zidane è timido: nei vicoli di Marsiglia, sulle piazze de La Castellane, Zidane ha imparato il peso delle parole, l’importanza dei gesti, dei comportamenti. Nelle interminabili partite contro le altre bande, ha imparato a sopportare i colpi degli avversari, ma di tanto in tanto la sua sopportazione ha un limite.
Dalla prima famosa reazione con il Cannes fino all’espulsione ai Mondiali contro l’Arabia Saudita: «Provengo da un quartiere duro, dove non si cerca mai la bagarre fine a se stessa ma, se vieni provocato, non puoi far finta di niente. Io detesto la violenza e l’ingiustizia e sopporto i colpi degli avversari. Fino a quando arrivo al punto in cui non ce la faccio più: allora mi ribello ed esplodo».
Uno di poche parole, insomma, ma tutt’altro che timido e pauroso al punto che i compagni più vecchi lo avevano nominato capitano ed era lui a strigliarli quando perdevano. Perché già da piccolo aveva dentro quella gran voglia di vincere che solo la Juventus saprà tirargli fuori appieno. Ma, questa, è un’altra storia. Il primo idolo è Enzo Francescoli: Zidane lo vede giocare nell’Olimpyque Marsiglia (di cui è tifoso) e ne resta affascinato: «Vedevo in lui tutte le qualità del calciatore. Se lo avessi incontrato allora, mi sarei inginocchiato davanti a lui e invece l’ho incontrato da avversario con la Juve, nella Coppa Intercontinentale. Fu una grande impressione e lui si commosse quando seppe che il mio primo figlio si chiamava Enzo in suo nome».
Ma al Velodrome, lo stadio di Marsiglia, è legato uno dei ricordi più belli della sua infanzia: è il giorno del suo dodicesimo compleanno quando Michel Platini guida la Francia alla finale di Coppa Europa. Zinedine è in delirio per il goal di Re Michel, colui che, solo una decina di anni dopo, lo consacrerà come suo erede con una frase tipica quanto le sue punizioni: «Zidane è l’unico giocatore per cui valga la pena pagare il biglietto».
Tra una partita e l’altra da raccattapalle, Zidane comincia a giocare in squadre vere. Prima l’associazione Nouvelle Vague di Le Castellane (di cui, ora, è presidente onorario, perché Zidane ma le radici e gli amici d’infanzia), poi il Saint Henri. Gli avversari erano impressionati dalla sua forza e dal suo fisico, tanto che il padre, ogni volta, doveva esibire i documenti per confermarne l’identità. Ma anche i compagni restavano spesso di stucco quando lo vedevano esibirsi in certi numeri d’alta scuola.
Zidane giocava nello Sport Olimpyque di Septemes, un piccolo centro a nord di Marsiglia: un campo di sabbia che non intaccava la sua classe: «Una volta – ricorda un compagno – stavamo vincendo per 2-1 una gara importante e, nel finale, arrivò un pallone fortissimo nella nostra area. Lui, invece di liberare, stoppò il pallone e lo fece passare sulla testa di un avversario prima di far partire il contropiede».
Un fenomeno simile, ovviamente, non poteva passare inosservato. Non a Jean Varraud, almeno, osservatore del Cannes che si accorse subito delle qualità tecniche e morali di quel ragazzo: «Una velocità di piedi e una tecnica eccezionali, mai viste prima. E poi la grande caparbietà dei ragazzi che arrivano dai quartieri meno fortunati».
A tredici anni e mezzo, Yaz Zidane è convocato a Cannes per il primo stage e, durante le partitelle, esagera con la voglia di stupire al punto che qualcuno comincia a pensare che sia meglio lasciar perdere. Varraud, però, insiste e convince i dirigenti della città rivierasca a dargli un’ulteriore possibilità. Ben più dura, invece, sarà convincere mamma Malika a lasciarlo partire: «Temevo che avrebbe preso cattive strade, così giovane».
La donna cede soltanto di fronte alle garanzie date dalla sistemazione che è trovata per suo figlio. A pensione dalla famiglia Elineau: il signor Jean Claude (dirigente del Cannes), la moglie Nicole, i loro tre figli e un altro allievo. Una seconda famiglia che aiuterà Zidane ad assorbire la difficile fase dello sradicamento: «Ogni notte piangevo per la solitudine ed è stato grazie a queste persone se ho superato quei difficili momenti».
Agli Elineau, oltre ai ricordi e alla gratitudine, di Zidane resta qualche regalo e un ciliegio piantato, nel loro giardino, dal futuro Campione del Mondo. A sedici anni lo chiamano con i professionisti e lui comincia a capire che il calcio potrà diventare qualcosa di più che una semplice passione. Il 20 maggio del 1989, un mese prima di compiere diciassette anni, l’allenatore Fernandez lo fa debuttare in Prima Divisione contro il Nantes, in trasferta: «Pareggiammo 1-1 e mi guadagnai un premio di 5.000 franchi: era pazzo di gioia».
Una felicità che sarebbe diventata ancora più grande quando, un anno dopo, vede le luci della Croisette riflettersi sul parabrezza della sua auto nuova: una Clio rossa che il presidente Pedretti gli aveva regalato per festeggiare il suo primo goal in Serie A, sempre contro il Nantes. Cannes, dunque, rappresenta per Zidane il luogo delle prime volte. Nel calcio, ma anche nella vita perché lì, nell’affascinante città del cinema, conoscerà la bella Véronique, la ballerina di cui si è innamorato e che è diventata sua moglie.
L’ultimo anno a Cannes fu pieno di difficoltà: la squadra retrocedette ed anche Zidane, salito giovanissimo alla ribalta nazionale, pagò una normale crisi di maturazione. Niente, però, che potesse scoraggiare chi credeva in lui: come Rolland Courbis, marsigliese appena nominato allenatore del Bordeaux.
Così, nell’estate del 1992, Zidane conosce i profumi di un altro mare: quelli dell’Oceano che spazza con le sue maree l’estuario della Garonna. Sulla Gironda, tra l’altro, ritrova Christophe Dugarry, suo grande amico già dai tempi della Nazionale Under 15.
Un sodalizio duraturo e sincero anche fuori dal campo (hanno acquistato insieme un bar a Bordeaux e si sono incontrati spesso nel loro primo anno italiano, quando Dugarry giocava nel Milan): «Mille emozioni mi legano a Duga, mille ricordi e tante risate».
L’amicizia (anche quella con Lizarazu) e l’unione del gruppo aiutano il fuoriclasse di Marsiglia ad ambientarsi in fretta nella nuova realtà: «Ho scelto il momento giusto per il gran salto, quel club è stato il mio trampolino di lancio e devo ringraziare Courbins (il tecnico che ha coniato il soprannome Zizou) che mi ha fatto crescere sia dal punto di vista umano che professionale».
Con i granata di Bordeaux, Zidane elimina il Milan dalla Coppa Uefa ma poi, in finale, si deve arrendere contro il Monaco: sarà la sua più grande delusione sportiva (mitigata dal contratto appena firmato con la Juventus) prima di conoscere quelle con i bianconeri nelle due finali di Coppa Campioni; qualcuno cominciava a dire che era lui a portare sfortuna ma la splendida prestazione nella finale Mondiale contro il Brasile ha messo tutti a tacere. Anche l’avventura con la Nazionale inizia da Bordeaux. Jaquet lo convocò il 17 agosto 1994 per sostituire l’infortunato Djorkaeff. La Francia gioca in amichevole, contro la Repubblica Ceca, proprio a Bordeaux. Zidane è emozionato ma trova un grande e abile consigliere in Eric Cantona che lo mette a suo agio.
Le cose si mettono male per i francesi che perdono 2-0 fino a quando Jaquet si decide a mandare in campo Zidane: è lui a pareggiare prima con una stupenda azione personale e poi con un colpo di testa. Un particolare importante, questo, perché il gioco aereo è sempre stato il punto debole di Zizou e lui per primo non avrebbe mai immaginato di poter, quattro anni dopo, regalare la Coppa del Mondo alla Francia con due colpi di testa.
I francesi celebrano il nuovo idolo e lo designano erede di Platini. Lui, però, non ci sta: «Non sarò mai come Platini: è stato unico e inimitabile. E poi io non sarò mai un trascinatore di uomini, né in campo né fuori. Non mi spaventano le responsabilità, certo, ma il mio carattere è diverso dal suo».
Paragoni a parte, sembrava destinato a un’ascesa folgorante anche con i “Bleus”, ma il destino stava per giocargli un brutto tiro. Un incidente d’auto, poco prima degli Europei del 1996, fa temere il peggio: Zidane se la cava con due cicatrici in testa e una brutta botta che ne condiziona le prestazioni in Inghilterra. «È stato un errore voler giocare a tutti i costi: in quelle competizioni bisogna essere sempre al trecento per cento».
Le scialbe prestazioni in Nazionale lasciarono perplesso anche Giovanni Agnelli: «Zidane è il giocatore di cui mi hanno parlato o quello che ho visto agli Europei?».
Come sempre, Zizou parlerà con i fatti e proprio Agnelli diventerà uno dei suoi più grandi estimatori. Il primo impatto con la scuola Juventus è durissimo: gli allenamenti di Ventrone sono massacranti: «Deschamps me ne aveva parlato, ma non credevo a una cosa simile. Più volte sono stato sul punto di vomitare dopo gli allenamenti talmente grande era stata la fatica».
L’inserimento è difficile, soprattutto dal punto di vista tattico. Zizou, però, non si perde d’animo e lavora sodo: «Sapevo che tutti si aspettavano qualcosa di più da me, ma io non mi sono mai demoralizzato, convinto che il lavoro avrebbe pagato. Alla Juve, poi, tutti mi sono stati vicini».
Il salto di qualità tanto atteso arriva quando Lippi lo piazza nel suo ruolo tradizionale con libertà di inventare: contro l’Inter, al Delle Alpi, Zidane gioca una gara eccezionale e segna un goal fantastico. La nuova avventura era cominciata. La sua importanza per il gioco della Juventus, del resto, è sottolineata dallo stesso Lippi: «Possiede il dono di rendere semplici le cose difficili».
E non si stanca mai di lavorare, di imparare, di accettare consigli. Migliora sotto il piano atletico e tattico, ma anche dal punto di vista caratteriale: allena senza stancarsi anche quella voglia di vincere che lo animava fin dalle partite sulla piazza de La Castellane: «Lippi è stato come un interruttore: mi ha acceso e ho capito cosa significa lavorare per qualcosa che vale. Prima di arrivare in Italia, il calcio era un lavoro, certo, ma soprattutto un divertimento. Da quando sono arrivato a Torino, invece, la voglia di vincere non mi ha lasciato più».
Ed anche nel giorno in cui è salito in cima al mondo con la Nazionale, un pensiero è corso alla Juventus: «Se sono arrivato fin qui, lo devo a questi anni in bianconero in cui ho trovato sicurezza, la voglia di non mollare mai, la capacità di rinnovare la fame di altri successi. Ecco perché voglio restare a Torino, in una Juve che continui a lottare per vincere tutto».
Gli anni d’oro di Zizou non si fermano a Francia 1998. Nello stesso anno arriva il Pallone d’oro: nella prestigiosa classifica si lascia alle spalle fuoriclasse del calibro di Suker del Real Madrid, Ronaldo dell’Inter e la stella nascente Owen del Liverpool. Oramai è l’ago della bussola francese e juventina. Lui e Del Piero sono i due giocatori capaci di fare la differenza. Purtroppo non fanno scudetti: prima li frena un acquazzone a Perugia e poi l’allegria di Van der Sar fra i pali. Ma per dissetarsi di successi c’è sempre la Francia. Il campionato d’Europa del 2000 vive dell’impareggiabile repertorio di Zizou le finisseur ed anche questo torneo entra nella bacheca personale di Zidane.
Rientra alla Juventus carico di gloria. Madame Zidane gli sussurra che Torino è un paesone: insomma, si è stufata, vuole la Spagna. Prima si parla di Barcellona e poi di Madrid. Zidane vorrebbe andarsene subito, ma lo trattiene l’avvocato Agnelli: si tratta di un favore personale che nemmeno Zidane può negargli. Una delle poche cose che Zizou ha imparato dai torinesi, è la cortese ipocrisia sabauda: durante la stagione si sprecano le dichiarazioni d’amore per la Juventus.
È una sceneggiata alla quale partecipano tutti: Moggi, che sa benissimo che il francese andrà al Real Madrid, la stampa sportiva, che sa benissimo che andrà alle “Merengues” e Zidane che ha già preso accordi con la squadra madrilena.
Quando rientra dalle vacanze 2001 l’annuncio ufficiale: alla Juventus arrivano una pioggia di miliardi (150), tutti si dichiarano sorpresi. Zidane: «Il mio addio alla Juventus era programmato per l’anno prossimo, ma i dirigenti hanno riflettuto ed hanno deciso di vendermi subito: per loro erano importanti i soldi».
La Juventus: «Abbiamo assecondato la volontà più volte espressa, e a fine stagione divenuta tassativa, del giocatore di trasferirsi in Spagna».
Moggi: «Zidane si è venduto da solo».
Con i soldi guadagnati arrivano Buffon, Thuram e Nedved; saranno altri anni gloriosi e ricchi di trionfi. Zizou al Real conquisterà nuovi trofei, non ultima la Champions League, che gli era sfuggita con la Juventus, vinta grazie ad un suo fantastico goal, nella finale contro il Bayer Leverkusen.
«Sono tanti i ricordi bellissimi in maglia bianconera, come il 6-1 in casa del Milan o le due semifinali di Champions League con l’Ajax; la gara di Amsterdam credo che sia stata quella giocata meglio in assoluto dalla Juventus di cui ho fatto parte io. Il rimpianto più grande è di non aver potuto alzare la Coppa dei Campioni; ci siamo andati vicino molte volte, ma non siamo stati abbastanza fortunati. Alla Juventus, comunque, ho vissuto cinque anni splendidi, vincendo molto; soprattutto, a Torino ho imparato molto a livello calcistico, facendo il cosiddetto salto di qualità. La Juventus mi è rimasta nel cuore».

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