VLADIMIR MAJAKOVSKIJ – 1893-1930
Prima parte: IN LUOGO DI UNA LETTERA
Gli uomini hanno paura perché dalla mia bocca
Penzola, sgambettando, un grido non masticato.
Ma voi potreste?
1913
A un tratto impiastricciai la mappa dei giorni prosaici,
dopo aver schizzato tinta da un bicchiere,
e mostrai su un piatto di gelatina
gli zigomi sghembi dell’oceano.
Sulla squama d’un pesce di latta
Lessi gli appelli di nuove labbra.
Ma voi
potreste
eseguire un notturno
su un flauto di grondaie?
Dietro una donna
1913
Spostato su col gomito un lievito di nebbia,
Colava biacca da una fiasca nera
E a briglia sciolta nel cielo
Canuto e greve caracollava fra le nuvole.
Nel fuso rame di case stagnate
A stento si contengono i tremiti delle vie,
Stuzzicati da un rosso mantello di lussuria,
I fumi diramavano le corna dentro il cielo.
Cosce-vulcani sotto il ghiaccio delle vesti,
Messi di seni mature già per il raccolto.
Dai marciapiedi con ammicchi malandrini
Frecce spuntate insorsero gelose.
Stormo che a un colpo di tacco si levi a volo nel cielo
Preghiere di altezze preso al laccio Iddio:
Con sorrisi da topi lo spennarono
E beffarde lo trassero per la fessura di una soglia.
L’Oriente in un vicolo le scorse,
Più in alto risospinse la smorfia del cielo
E il sole dalla nera borsa strappato fuori
Pestò con cattiveria le costole del tetto.
Eppure
1913
La via sprofondò come il naso d’un sifilitico.
Il fiume era lascivia sbavata in salive.
Gettando la biancheria sino all’ultima fogliuzza,
i giardini si sdraiarono oscenamente in giugno.
Io uscii sulla piazza
a mo’ di parrucca rossiccia
mi posi sulla testa un quartiere bruciato.
Gli uomini hanno paura perché dalla mia bocca
Penzola sgambettando un grido non masticato.
Ma, senza biasimarmi né insultarmi,
spargeranno di fiori la mia strada, come davanti a un profeta.
Tutti costoro dai nasi sprofondati lo sanno:
io sono il vostro poeta.
Come una taverna mi spaura il vostro tremendo giudizio!
Solo, attraverso gli edifici in fiamme,
le prostitute mi porteranno sulle braccia come una reliquia
mostrandomi a Dio per loro discolpa.
E Dio romperà in pianto sopra il mio libriccino!
Non parole, ma spasmi appollottolati;
e correrà per il cielo coi miei versi sotto l’ascella
per leggerli, ansando, ai suoi conoscenti.
L’infernaccio della città
1913
Le finestre frantumarono l’infernaccio della città
In minuscoli infernucci succhianti con le luci.
Rossicci diavoli, si impennavano le automobili,
facendo esplodere le trombe proprio sull’orecchio.
E là, sotto l’insegna con le aringhe di Kerč,
un vecchietto stravolto cercava a tastoni i suoi occhiali
e ruppe in lacrie quando, nel tifone del vespro,
un tram di rincorsa sbattè le pupille.
Nei buchi del grattacieli, ove ardeva il minerale
E il ferro dei treni ingombrava il passaggio,
un aeroplano lanciò un grido e cadde
là dove al sole ferito colava l’occhio.
E allora ormai – sgualcite le coltri dei lampioni –
La notte si diede al piacere, oscena e ubriaca,
mentre dietro i soli delle vie in qualche luogo zoppicava,
non necessaria a nessuno, la flaccida luna.
Ancora Pietroburgo
1914
Negli orecchi i frantumi di un accaldato ballo
E dal Nord – più canuta della neve – una nebbia
Dal volto di cannibale assetato di sangue
Masticava gli insipidi passanti.
Le ore incombevano come un volgare insulto,
Incombono le cinque e sono poi
Le sei – ci sta a guardare dal cielo una canaglia
Maestosamente come un Lev Tolstoj.
Lilička!
In luogo di una lettera
1916
Un fumo di tabacco ha divorato l’aria.
La stanza
È un capitolo dell’inferno di Kručënnyck.
Ricordati –
Proprio in questa stanza
Per la prima volta
Estasiato accarezzavo le tue mani.
Eccoti oggi seduta
Il cuore chiuso dentro una corazza.
Ancora un giorno e poi
Mi scaccerai
Magari anche imprecando alle mie spalle.
Nella buia anticamera la mano nella manica
Più non stenterà a entrare disfatta dal tremore.
Correrò via
E getterò il mio corpo sulla strada.
Selvatico animale
Impazzirò
Sotto una sferza di disperazione.
Ma così non si deve,
Mia cara,
Mia diletta,
Meglio lasciarci ora.
Non importa –
Il mio amore
È un pesante macigno
Che incombe su di te
Ovunque tu possa fuggirmi.
Lascia in un grido estremo che si sfoghi
L’amarezza dei lamenti e del rancore.
Quando anche un bue è disfatto di fatica
Lui pure andrà a gettarsi
In fredde acque in cerca di ristoro.
Ma altro mare non c’è
Per me
Tranne il tuo amore,
Né tregua c’è in amore anche nel pianto.
Se un elefante stanco vorrà pace
Si stenderà maestoso sull’infocata sabbia.
Ma altro sole non c’è
Per me
Tranne il tuo amore,
Benché io non so tu dove o con chi sei.
Se così se ne fosse tormentato
Dell’amore – un poeta
In soldi e gloria l’avrebbe mutato,
Ma altro suono non c’è
Che mi dia gioia
Tranne che il suono del tuo nome beato.
E non mi getterò giù dalla tromba delle scale
E non berrò il veleno
Né premerò il grilletto dell’arma sulla tempia.
E non c’è lama di coltello che
Abbia su me potere
Tranne che sia la lama del tuo sguardo.
Tu scorderai domani
Che io t’incoronavo,
Che d’un ardente amore l’anima ti bruciavo,
E un carnevale effimero di frenetici giorni
Disperderà le pagine dei miei piccoli libri…
Le secche foglie delle mie parole
Potranno mai indurre uno a sostare,
E respirare con avidità?
Almeno lascia che un’estrema tenerezza
Copra l’allontanarsi
Dei tuoi passi.