Sport

3 PUNTI A PARTITA Burnout, Davis, derby d’Italia e finali scadenti

 

 

Articolo di Carlo Amedeo Coletta

 

 

Italiani popolo di marinai e poeti, si diceva un tempo. Non è passato neanche tanto, in effetti. Poi siamo diventati il popolo degli spaghetti e del calcio. Ah, sì, anche della pizza e delle auto da corsa. E adesso? Bè, dopo le ultime settimane, per un occhio straniero, l’italiano medio dovrebbe avere una racchetta nella mano destra, una fetta di pizza vegana nella mano sinistra ed essere a cavalcioni di una moto potentissima. Come possa guidarla, con racchetta e pizza, è un mistero, ma sicuramente un italiano potrebbe riuscirci. A quanto pare, la nostra evoluzione ci sta portando a sfidare e sopraffare ambienti a noi quasi sconosciuti. Non è del tutto vero, in effetti. Con le moto ci sappiamo fare da tempo. Ma il resto? Il tennis. Prendiamo il tennis. Di colpo siamo diventati tutti fenomeni del fondocampo, meraviglie della volèe, esempio di asimmetria perfetta con un braccio doppio rispetto all’altro. Terra battuta e cemento non sono più tecniche di asfaltatura o costruzione ma ambienti ideali per riprodursi, vincenti. Era già successo, negli anni ’70, quando l’Italia vinse per la prima e, fino ad allora, unica volta la Coppa Davies. E giù a chiamare i figli appena nati come i campioni di allora! Tutti Adriano, come Panatta. Eppure, fino a ieri, eravamo diventati schiavi del fenomeno Padel perché, insomma, il tennis è troppo da “perfettini”! Vuoi mettere una bella padellata, data bene, senza olio? Non è mica come giocare di fino con la racchetta. Roba da viziati, quella. Ecco, mi immagino, adesso, quanti campi di padel lasceranno nuovamente spazio ai campi da tennis. E noi siamo così, non c’è nulla da fare. Passionali, dicono quelli bravi, facili all’entusiasmo. Staremo a vedere. Di certo, se proprio deve trattarsi di entusiasmo impulsivo, il tennis costa meno di una moto. Una come quella di Bagnaia, per esempio, fresco campione del mondo di motociclismo! Proprio Bagnaia, dal cognome italiano, residente in Italia su chiaro territorio nazionale, con quella cadenza nel parlare che ci ricorda la vecchia capitale della nazione, Torino. Bene bene, bravo! Un italiano che ci rende fieri! Perché sì, è vero, abbiamo vinto la Coppa Davis ma quel popolo di marinai e poeti, ecco, è proprio sparito. Almeno per la parte dei poeti. Con un tasso di analfabetismo funzionale pari al 43% della popolazione, siamo riusciti a dire…e pensare… che il condottiero della spedizione azzurra non sia proprio italiano, ecco. Ha quel nome lì, Jannik, che certo ha poco di italico. Va bene l’iniziale, J di Juventus, ma la K? Come me la giustifichi quella K messa in fondo? E poi quel cognome, Sinner. Cosa significa? Per cosa sta? Non è mica un Rossi che indica una quantità, plurale, di colore rosso Ferrari. Già, la Ferrari. Poi ne parliamo. Insomma, si diceva, questo Jannik Sinner, esattamente, di dove è? Non sarà mica un residuato dell’Impero Austro Ungarico? Non sarà mica il discendente di qualche tedesco arrivato qui con la guerra? Ha anche i capelli rossi. E poi quell’accento lì, da Sturmtruppen, che ci fa in bocca a un italiano? Uno vero, dico. Sì, bravo, regalaci questa coppa, ma stai al tuo posto. Non sei dei nostri. Che palle di gente che siamo. Palle da tennis, intendo, chiaramente.

Bene, siamo partiti quasi dal fondo. Sì, perché prima del trionfo in Coppa Davis e della vittoria di Bagnaia in MotoGP, c’è stata anche la Formula 1 e inizio a pensare che si chiami così perché vince sempre e solo uno, sempre lo stesso, Max Verstappen. In una stagione lunghissima con ben 22 gare, lui ne ha vinte 19. Complimenti, è stato per l’ennesima volta il più forte di tutti. E la sua auto è stata la migliore. E noi italiani? Non eravamo quelli delle auto veloci e sportive? Si vede che ci siamo ormai concentrati sulle moto perché, in tutto l’anno, abbiamo vinto solo una gara. Una. Una gara di formula 1. Spero che, alla base, non ci sia un grande equivoco. Non è che se ne vinci solo una, allora sei il migliore, eh. Vabbè, si scherza. Fatto sta che il nostro bravo pilota monegasco, Leclerc, è arrivato secondo. Ecco, lui è monegasco ma siccome parla italiano, ha i capelli neri e guida una Ferrari, allora lo abbiamo adottato. E’ quasi italiano. Più di Sinner, a quanto pare. E siamo strani, guarda. Comunque, Leclerc finisce l’ennesima gara senza vittorie ma è l’ultima dell’anno. Chiede al box, via radio, se possa fare qualche burnout, qualche testacoda ecco, in pista per festeggiare la fine della stagione. E che gli rispondono? “No no, niente burnout, torna al box con calma sennò la macchina si rovina”. E dimmi, caro box, che ci devi fare con quest’auto? La vuoi rivendere su Subito.it? Mica la devi utilizzare per il prossimo anno, guarda! Nulla, altra occasione sprecata. Nessuno spettacolo durante la stagione e nessuno spettacolo per la fine. Coerenti, almeno. Questo nonostante la classifica finale sia peggiore dello scorso anno. Ma che ti costava un testacoda? Bah

Tornando all’inizio della nostra chiacchierata, si diceva, prototipo italiano con racchetta a destra, pizza vegana a sinistra, ma solo per moda, e una bella moto sotto le terga. E tutto il resto? Ciò che era prima? L’auto sportiva ormai l’abbiamo lasciata in garage, visti i risultati. Ma il pallone? Il calcio? Non eravamo il campionato più difficile del mondo? La nazionale con 4 mondiali cuciti sul petto? Bè, sì, il pallone deve esserci ancora, da qualche parte, nell’immagine che uno straniero può avere dell’italiano tipo. Deve essersi sgonfiato, però, e giacere lì vicino alle scarpe da tennis appena comprate. Almeno quelle, le scarpe dico, sanno di nuovo. Cosa sta accadendo, invece, al nostro campionato?

Ricordate il mio precedente articolo? Quello in cui dicevo come mancassero dei leader, delle figure iconiche in cui identificarsi e che sapessero trascinare compagni e tifosi? Avevo ipotizzato che affidarsi a giocatori molto avanti con gli anni avesse proprio la funzione di arginare questo problema. Magari non è più fortissimo ma è carismatico. Ecco, scritto l’articolo mi sono anche chiesto se non avessi esagerato. Magari, mi sono detto, sono io a non trovare più figure iconiche. Magari quello che non è più in età da tifo sono io. Bene, poi è arrivato il Napoli a togliere ogni dubbio. Salta la panchina di Rudi Garcia e chi arriva? Un giovane allenatore promettente? No, di più. Un navigato allenatore molto affidabile? No no, di più, di più! Arriva un allenatore che va per i 70 anni e che non allena più da dieci! Walter Mazzarri, volto del vecchio Napoli della ricostruzione. Un uomo che, negli ultimi due lustri, ha passato il pomeriggio a guardare le partite in Tv. E allora, come la vogliamo chiamare questa se non “esigenza di leader”? Non so come andrà a finire a Napoli, ma chi era proprio su quella panchina fino allo scorso anno è Luciano Spalletti, adesso alla guida della Nazionale. In ballo, tanto per cominciare, c’era la qualificazione al prossimo europeo. Obiettivo raggiunto? Sì, certo. Facendo bella figura? Insomma…Rubacchiando qualcosa? Forse. Poco ci fa, corazzate come Macedonia e Ucraina erano frapposte tra noi e l’obiettivo e, di riffa o di raffa, l’abbiamo sfangata. Di spiegar tocca a li vinti, disse qualcuno…forse io, non ricordo.

Di sicuro, quel pallone sgonfio che appare all’occhio straniero nell’ideale ritratto dell’italiano medio poteva rigonfiarsi con l’ultimo grande appuntamento domenicale. A Torino c’era il Derby D’Italia, Juventus – Inter. Vuoi dare spettacolo in pasto agli avidi occhi sportivi del mondo? Bene, lascia giocare Juventus e Inter. Ruggini di decenni, storie sportive che si incrociano in mille modi, campioni e campionati del passato che, in un attimo, sembrano essere scesi in campo fino a ieri. E tutti pronti, tutti seduti sul divano, al bar, allo stadio per godere di questo spettacolo, con entrambe le squadre vestite con le casacche tradizionali, Bianco Nera la Juventus, Nero Azzurra l’Inter. Certi palcoscenici e certe tradizioni meritano rispetto, anche nello sport. Quindi? Una noia mortale. Se il primo tempo, a tratti, ha regalato qualche emozione e due gol, uno per parte, il secondo tempo ha mortificato tutto. Ha mortificato il gioco del calcio, la passione dei tifosi, la curiosità degli imparziali, l’amore degli appassionati. A fine partita, un cronista della radio, ha detto che, nel secondo tempo, le squadre hanno smesso di giocare per paura, perché sapevano che chi avesse segnato, molto probabilmente poi, avrebbe vinto la partita. Partiamo con i miei più sentiti complimenti per questa frase che dimostra quanto sia possibile farsi pagare per dire l’ovvio. “Chi segna, vince!”. Lo dicevamo anche noi, da bambini, al parco. Poi, però, facciamoci due domande: siamo a novembre, neanche metà campionato. Quanto potrà mai essere importante vincere o perdere una partita? Ma almeno provaci! Niente. Seconda domanda: ma a tutti quelli che hanno speso (pazzi) centinaia di euro per comprare un biglietto e assistere a questo spettacolo, come gliela spieghi? Eh, vi va bene che non dovete nulla a nessuno, altrimenti ve ne guardereste bene dal comportarvi così. Pigrizia, indolenza e codardia. Le caratteristiche degli ignavi. Persino Dante li mette fuori dall’Inferno perché non li vuole nessuno, né l’inferno né il paradiso. Non piacciono a nessuno. Neppure a noi.

Sì, il prototipo di italiano medio, il vecchio marinaio e poeta, ha proprio un pallone sgonfio lì per terra, vicino alle scarpe da tennis e alla gomma della moto fiammante. Un vero peccato. Poteva essere un gran finale per una bellissima giornata di festa. Una partita, quella di cartello, che prometteva un bellissimo spettacolo. Forse, però, è colpa della nostra storia. Siamo ancora marinai, come si diceva un tempo, e le promesse da marinaio si sa che fine fanno.

A presto, e buono sport a tutti!

 

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