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BRUCIA ANCORA QUELL’ESTATE Intervista al cantautore Paoloparòn

BRUCIA ANCORA QUELL’ESTATE

Intervista al cantautore Paoloparòn

A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage

Bravo, bizzarro e parecchio riflessivo, il cantautore pordenonese Paoloparòn pubblica per (R)esisto l’interessantissimo Brucia Ancora Quell’Estate, un EP che profuma davvero di diverso e di buono. Il filo conduttore che lega le canzoni presenti è un dettaglio, quel dettaglio da niente chiamato forse con prigizia semplicemente tempo. «Il passato è un presente che non fa ritorno» dichiara l’artista friulano, toccandola piano senza toccarla piano, pensando forte senza pensare poi così forte. E noi non possiamo fare altro che annuire e ascoltare la sua produzione. Voilà, signori, godetevi l’intervista…

E allora, Paolo, è arrivato il tuo momento su MDN e io sono contento. Sto provando a capirlo da solo, ma forse faccio prima a chiedertelo: chi sei?

Ah, vedi, anch’io sto provando a capirlo da solo. Ma mica è sempre utile, questa cosa di definirsi. Poi si rischia di seguire certe convinzioni a cui abbiamo voluto dar credito. Comunque sono nato a Pordenone qualche decennio fa e ho cominciato a suonare il pianoforte in tenera età. Ero un pessimo studente ed ero più interessato a scoprire come funziona la musica che a suonare bene, purtroppo. Mi è sempre piaciuto passare da uno strumento all’altro, ma soprattutto mi piace comporre, scrivere e comporre. Fin da ragazzo mi porto dietro un conflitto mai ben sanato tra il blues delle origini, tipo nastri di Alan Lomax e il rock progressivo alla Banco del Mutuo Soccorso. Credo che questo affiori nell’eterogeneità delle cose che ho provato a pubblicare durante la mia nebbiosa “carriera”, sicuramente in comune quei generi hanno l’emergenza forte di dare voce alle comunità in cui nascono. Credo che ogni forma d’arte porti, più o meno consapevolmente, istanze collettive, anche se nascono da un singolo e dalla sua intima esperienza.

Con Resisto collaboriamo ormai da anni e, come dico sempre, è incredibile constatare la mole di qualità che questa etichetta riesce sempre a proporre. Il tuo nuovo EP non fa eccezione, è un lavoro interessante e… unico? Estroso? Diverso? Che cos’è Brucia Ancora QuellEstate?

Grazie, sono tre aggettivi molto lusinghieri. Brucia ancora quell’estate è un EP che nasce da un demo-cidio. Quando iniziai a far girare tra le etichette la demo di un intero LP che avevo appena chiuso nel 2023, Massimiliano Lambertini di (R)esisto rispose interessato. Così organizzammo un colloquio in videochat in cui passò il tempo a stroncarla, quella demo. A quel punto, non capendo esattamente perché avesse deciso di contattarmi, ci accordammo per produrre assieme un brano, andai giù a Ferrara con il mio amico Daniele Dibiaggio, che aveva partecipato alla produzione del lavoro, e, nelle mani di Michele Guberti, Bambini Punk fu presa e rivoltata come un calzino. Così tornai a casa con un’idea ben precisa di che cosa volevano, da questa etichetta. E ho fatto i compiti per casa.

Cinque brani che stanno bene insieme, una scrittura stravagante che colpisce subito, ma che allo stesso tempo ha bisogno di essere davvero analizzata. Come nasce la tua musica e quali sono le situazioni che più ti ispirano?

La scrittura del testo è quella che mi impegna di più, ogni parola è un simbolo che amo usare al momento giusto, nella posizione giusta. A volte a scrivere un testo ci impiego anni. Da ragazzo ero un fan di Ungaretti. Poi si impara ad arrivare a compromessi. Però in linea di massima funziona così: da un embrione di testo comincio a canticchiare una melodia. La musica poi si sviluppa velocemente nella mia testa. Utilizzo molto il registratore dello smartphone per canticchiare melodie al volo, mentre sono per strada o in cucina, e un taccuino per buttare giù immagini e versi. Qualsiasi situazione può essere di spunto, sicuramente le persone che conosco, con cui parlo, sono la fonte più importante di ispirazione per le mie immagini. La canzone diventa un po’ la Polaroid di un pensiero o di una situazione vissuta (anche se di istantaneo, come dicevo, ha ben poco!).

Il singolo estratto è Vorrei Avere VentAnni, un brano potente e, non mi fraintendere perchè mi piace parecchio, diversamente poetico. Perchè proprio questa canzone?

A Max Lambertini suonava come un manifesto d’intenti. In un certo senso lo è: un’osservazione al tavolo anatomico della difficoltà comunicativa del nostro tempo, tra generazioni ed esperienze diverse. Un’incomunicabilità, un’incomprensione che a volte ci fa montare una frustrazione rabbiosa, un attaccarsi disperato al proprio vissuto come rifugio ultimo per ripararsi da un tempo che fatichiamo ad abitare, e che siamo tentati di non riconoscere, fingendo di dimenticare che non è altro che il nostro presente.

Oh, poi arrivano persino Freud e Le Anguille, arrivano come detto i Bambini Punk. Di che cazzo stiamo parlando! Tanta roba e tanto fascino, giuro. Ma a te la parola?

«Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe» diceva quello.

Freud e le anguille è un’ironica metafora sulla pressione esercitata dalla nostra società, che continuamente ci chiede di definirci, di darci un ruolo meccanicistico all’interno del sistema. Pare che a Freud, quando era studente, avessero dato il compito di determinare il sesso delle anguille, un mistero che fino agli anni ’30 del secolo scorso non fu risolto. Credo che tanto del suo lavoro sulla psiche umana derivi da quel fallimento. Ma l’anguilla vive lo stesso, mica gliene frega di quel che sappiamo noi di lei (o lui). Bambini Punk è uno sguardo affettuoso alla fine dell’adolescenza. Doveva essere introdotto da una frase di una mia amica che un giorno mi scrisse “E’ questo che ci ammazza: la narrazione di essere destinati a destini eccezionali per raggiungere la felicità”.

Per quanto riguarda il suono, la musica, dove ti collochi. Il tuo è un indie pop piacevolmente bizzarro, ma parecchio intelligente, se vogliamo geniale. Insomma, da dove arrivano le scelte sonore?

Mi fai troppi complimenti. Geniale non me lo vedo tatuato in fronte. Forse bizzarro di più. Le mie scelte sonore derivano dagli ascolti di tanti anni, a volte schizofrenici, a volte ossessivi, mai fermi su un punto. Diciamo che per autocensura o per eccessivo senso del dovere sono portato a scartare soluzioni troppo facili. Bambini punk con i suoi due accordi è stata quasi una violenza per me, eppure è il brano che i produttori hanno scelto per primo. L’idea di attenersi a una forma canzone pop, e tenere un suono elettrico, dritto, senza troppi fronzoli, è stato il loro suggerimento, però qualche dissonanza me la sono concessa!

Con chi hai lavorato in studio e come ti sei mosso durante le registrazioni?

Il lavoro in studio è stato per lo più solitario. Ho registrato nel mio home studio chitarre, bassi, tastiere e programmato al computer le percussioni, a parte in Bambini Punk, dove basso e chitarra elettrica sono suonati da Michele Guberti. Frequentemente mi sono confrontato sulle soluzioni strutturali con Daniele Dibiaggio (produttore pop di Trieste), che ha curato anche l’editing. Poi le voci sono state registrate magistralmente agli studi Magiari di Ferrara da Michele, che ha curato anche il mix e il master.

Il pezzo che preferisci?

Per essere bizzarro ti direi Petricore, però vedere il labiale di alcuni ragazzi al mio primo concerto nella nuova formazione che cantavano il ritornello di Bambini Punk mi fa pensare che forse quel pezzo è stato toccato da qualche alchimia particolare che lo rende “di tutti” più degli altri.

Se dico tempo? Vorrei Avere Ventanni racconta cose, ma ascoltandoti, tra colori e versi, percepisco una stranissima forma di nostalgia…

Sì, a posteriori direi che questo disco ha come filo conduttore proprio il tempo. È la risposta che dò a tutte le interviste. Il fatto è che me ne sono reso conto dopo. Più che nostalgia è un tempo che ci attraversa. Forse perché non parlo tanto di me, ma racconto qualcosa che osservo. “Il passato è un presente che non fa ritorno” è una condizione esistenziale, la vivo io come la vive un bambino, o un ventenne o un settantenne, e questo passato è un passato collettivo, che ci attraversa. Vi è mai capitato di sentire un senso di nostalgia per un passato che non ti appartiene, perché ne hai avuta in regalo una testimonianza? E il tempo immobile del lockdown, di cui canto in Vaniglia, è stato veramente immobile, o ci ha mosso dentro qualcosa di forte a tutti? E se il me di vent’anni fa vivesse adesso, sarebbe lo stesso? Un po’ sono forse queste le domande che mi pongo, riascoltando le canzoni.

Sei in giro da molto e, davvero, vorrei ascoltare tutto il tuo materiale. Hai voglia di raccontare la tua storia in musica? Esperienze, incisioni, live…

La mia storia in musica è tendenzialmente sbagliata. Negli anni ’90 vivevo negli anni ’70, negli anni ’00 scoprivo il punk, e via dicendo. Comunque ho iniziato suonando le tastiere in una formazione rock-blues, The Pilot Priest, che ebbe il suo canto del cigno in un’opera post-rock tra il jazz e la sperimentazione che non fu mai registrata, se non in una ripresa video amatoriale. Poi misi in piedi un quartetto semi-acustico con cui iniziai a pubblicare le prime canzoni in italiano, Orchestra Cortile, che ebbe anche un discreto successo locale grazie soprattutto a un EP in friulano pubblicato da MusicheFurlaneFuarte, nel 2010. Da solista ho pubblicato online una demo casalinga nel 2013 e un disco, Vinacce, per Toks Records nel 2017, molto cantautoriali. Nel frattempo ho suonato per il teatro, per molti readings e per qualche video, soprattutto a tema sociale. Sono entrato a coordinare un gruppo nato nell’ambito della salute mentale, i Capitano tutte a noi. Ho fatto un paio di stagioni con i Playa Desnuda, finendo a suonare al Rototom Sunsplash in Spagna. Attualmente sono tastierista nel Jamaican Music Book, un progetto di teatro musicale sulla musica in levare, e nella band di Jvan Moda, un altro bravo cantautore friulano.

Musica in Italia. Quanto siamo messi male, secondo te?

Dischi belli ne escono, a mio parere. Ma il pubblico è poco. Generalmente alla gente non gliene frega un cazzo della musica. Credo che siano in pochi a “scegliere” realmente cosa ascoltare durante la giornata. Quindi il pubblico è proprio poco. Lo si vede ai concerti belli, in quei due circoli che fanno ancora suonare live e ci si ritrova sempre tra le stesse facce, un’ottantina di persone e i gestori fanno i salti alti così. Questo disincentiva l’apertura di nuovi spazi, i ragazzi più giovani droppano i loro pezzi su Insta e fanno ascolti così, magari non avranno mai modo di esibirsi davanti a un pubblico. Ma forse è sempre stato così: gli artisti veri si contano sulle dita di una mano. È un peccato che passare il sabato sera ad ascoltare delle band sconosciute sia diventato a sua volta un’abitudine sconosciuta.

Da Pordenone a Ferrara. Come? Perché?

Perché Max si è preso la briga di contattarmi per stroncare la mia demo. Però Ferrara è proprio bella, e pure la campagna emiliana, per me che sono abituato a vedere almeno la fine di un orizzonte, dove le montagne lo recintano, quel paesaggio dà quasi l’impressione di essere in mare aperto.

Saluta i lettori, senza dimenticare di piazzare come mine i tuoi link principali…

Se avete avuto la pazienza di arrivare fin qua, dovrei offrirvi da bere uno a uno. Quindi vi ringrazio e vi invito ad ascoltare la mia musica su tutte le piattaforme di streaming, dove troverete le mie pubblicazioni, e quando mi sento ispirato, qualche playlist.

Su https://www.instagram.com/paolo_paron/ e https://www.facebook.com/paoloparonmusic tutti gli aggiornamenti e le date. Se qualcuno vuole invitarmi nella sua città a presentare il disco sappia che stiamo girando con un power trio di tutto rispetto con i maestri Alan Liberale alla batteria e Mirco “Il Guzo” Caso al basso.

Buona vita e buona musica a tutti!

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