Articolo di Emilio Aurilia

 

Nascono nel 1968 come Big Thing nella città da cui avrebbero successivamente preso la denominazione prima fatta seguire dal pomposo “Transit Authority” e poi semplificata nel solo suo nome in una formazione che in oltre cinquantanni è mutata di poco. L’originalità del gruppo è stata caratterizzata dalla presenza di una vivace ed energica brass section: Lee Loughnane (tromba e flicorno), Walter Parazaider (sax e flauto) e James Pankow (trombone), a sostenere un quartetto base di stampo rock: Terry Kath (chitarra), Robert Lamm (tastiere), Peter Cetera (basso) e Daniel Seraphine (batteria) tramite fantasiosi interventi di stampo jazz. Brani caratterizzati da forti coloriture e lunghi assolo hanno contribuito a far sì che i primi tre album fossero doppi e il quarto (un live al Carnegie Hall) addirittura quadruplo adatto a racchiudere l’operato della band fino a quel momento e che rappresenta un po’ il concentrato e l’emblema della sua musica costellata da pezzi superbi ed irripetibili come “In The Country“, “Beginnings“, “Introduction “, “Question 67 an 68“, “Sing A Mean Tune Kid“, la meravigliosa suite di Pankow “Ballet For A Girl In Buchannon“. Da allora infatti, tranne poche eccezioni come l’album appena seguente ancora denso di episodi notevoli come “A hit by Varèse” , “Goodbye“, “Dialogue” e la sopravvalutata “Saturday In The Park“, insieme a “Chicago VII” (il gruppo ha scelto come titolo dei dischi quasi sempre il suo nome seguìto dal numero progressivo) un ritorno al doppio, la band comincerà ad abbracciare una musica molto più vicina al pop d’intrattenimento (come il super hit “If You Leave Me Now“), sia pur alternata a momenti più mossi e di spessore, che non tentare un ritorno all’interessante sound ricercato degli inizi. Il decesso tanto tragico quanto (si dice) accidentale di Terry Kath nel 1978, vittima di un’assurda roulette russa durante una festa tragicamente movimenta, accelera tale trasformazione redditizia dal punto di vista economico grazie alla successiva produzione lussuosa di David Foster che contribuirà ad un altro hit dolciastro nel 1982  (“Hard To Say I’m Sorry“), ma decisamente scadente sotto il profilo qualitativo, facendo guadagnare nuovo pubblico ma deludendo chi ne ha amato i coraggiosi azzardi degli esordi. Avvicendamenti di produzione e anche di formazione (l’importante fuoriuscita di Cetera cantante dei maggiori ultimi successi in chiave pop) portano i Chicago ad allontanarsi definitivamente dall’irripetibile  immagine originaria pur conservando nel sound una certa dignità formale.

 

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