Di Adriana La Trecchia Scola

 

Da più di duemila anni Idi di marzo significa tradimento. Infatti il 15 marzo del 44 a.C. il generale Giulio Cesare, probabilmente l’antico romano più celebre della Storia, veniva assassinato con 23 pugnalate inferte da un gruppo di senatori che volevano fermarne l’inarrestabile scalata al potere assoluto. Dopo la Guerra Civile (49 a.C.-45 a.C.) e la definitiva vittoria sul suo rivale Pompeo, Cesare non aveva più ostacoli sul proprio cammino e dopo aver assunto la carica di dittatore a vita nel 44 a.C., ed aver persino designato un successore (Ottaviano), sembrava in procinto di smantellare la vecchia Repubblica Romana per accentrare il potere nelle mani di un solo uomo. Per questo un gruppo di sessanta senatori ordì una congiura per fermare Cesare; a capeggiare i cospiratori furono Gaio Cassio e Marco Giunio Bruto (un giovane rampante che in passato era stato ben voluto dallo stesso Giulio Cesare in quanto considerato come un figlio). Così, nel giorno delle Idi di Marzo del 44 a.C., i “cesaricidi” attesero il dittatore alla seduta in Senato e lì, secondo lo storico latino Svetonio, lo pugnalarono 23 volte. In particolare Cesare, vedendosi colpito anche da Bruto, pronunciò la famosa frase rivolta al suo ex-pupillo: “tu quoque Brute, fili mi!” (Anche tu Bruto, figlio mio!). La morte di Cesare sconvolse il mondo romano ma non frenò la fine della Repubblica, ormai in piena crisi. La figura dell’uomo forte al comando venne ripresa dai due successori del condottiero che si contesero il potere, Marco Antonio e Ottaviano, e quando quest’ultimo prevalse, cominciò la lunga e gloriosa fase imperiale. Cesare fu colui che preparò il terreno per l’ascesa dell’Impero, ma non fu mai imperatore. Fu Ottaviano, poi Ottaviano Augusto, il primo imperatore romano. L’influenza della storia romana è indelebile e perenne: un esempio è la famosa citazione strappata al presidente americano George W.Bush (espressione di un repubblicanesimo incredibilmente arrogante), “Ora siamo un impero, e quando agiamo, creiamo la nostra realtà”. In pratica la visione geopolitica dei neoconservatori e dei liberal (loro corrispettivo nel partito democratico) è folle nel senso letterale del termine, in quanto denota un rapporto distorto e irrazionale con la realtà. Per essi la realtà non esiste, se non quando coincide con le loro perverse fantasie e le loro prospettive. Dal momento che gli antagonisti del loro Impero non si piegano alle loro pretese o, anche se lo fanno, la loro resa potrebbe non essere utile ai loro progetti su larga scala, nascono i conflitti degli anni passati (la disfatta della guerra in Iraq e il fallimento della guerra in Afghanistan). L’invasione statunitense dell’Iraq, di cui ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario, è stato lo stratagemma escogitato per condurre la guerra globale al terrorismo in seguito alle macerie fumanti delle torri gemelle. Il pretesto sono state le famigerate armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, inesistenti ma funzionali per collegarlo all’11 settembre. Il risultato ottenuto è stato il collasso del regime iracheno, ma soprattutto l’avvio di una spirale inarrestabile di violenza settaria sul territorio. L’Operazione Iraqi Freedom è stata un disastro totale perchè non ha “esportato la democrazia”, ha alimentato l’instabilità regionale e addirittura ha accentuato la ripresa della corsa alla bomba atomica. Bush aveva giustificato il conflitto difronte l’opinione pubblica con lo scopo di privare gli “Stati canaglia” (Iraq, Iran e Corea del Nord) dei mezzi atomici, invece ha ottenuto l’inatteso fenomeno della proliferazione di massa. Effettivamente si è verificato un nuovo Vietnam, che ha trasformato gli Stati Uniti sia all’interno che all’estero. Infatti il tracollo finanziario del 2008 mise fine alla parentesi neoconservatrice, portando all’ascesa democratica di Barak Obama, portatore di un’agenda radicale che comprendeva il ritiro dai fronti aperti durante la precedente amministrazione. Tuttavia proprio perchè la promessa non era stata interamente mantenuta, si arriva nel 2016 al trionfo dell’outsider Donald Trump. Trump ha inaugurato una stagione di isolazionismo globale che riflette la stanchezza dell’uomo comune rispetto ad una vocazione internazionalista che gli appare distante. Gli eventi del ventennio passato hanno prodotto negli USA una profonda frattura tra nazione e impero, ossia tra cittadinanza ed élite, che intacca i pilastri su cui poggia la supremazia americana e quindi l’ordine mondiale vigente. Insomma lo zio Sam ha smesso i panni del volenteroso tutore della Carta ONU in favore di quelli di egemone volubile e vendicativo. Il disastro mediorentale ha accentuato il declino del sistema americano, di cui sembrano voler approfittare Russia e Cina. L’esito non è per forza la fine ma un assetto post-liberale dove la contrapposizione non ha nulla di ideologico ma riguarda il puro possesso di territori e risorse. Anche stavolta vale la convinzione gattopardesca che “tutto cambia per restare uguale”, nel senso che nella scena politica americana l’alternanza tra repubblicani e democratici rappresenta solo il cambiamento della cornice non dei contenuti dell’azione. Il disastro mediorentale ha prodotto un’avversione quasi paranoica al pensiero neocon, ma la linea adottata in seguito (il pensiero woke) ricalca la teoria di fondo. Neoconservatorismo e wokismo sono funzionalmente identici perchè entrambi sono accomunati da un incrollabile senso di superiorità. Mentre il primo ha incontrato un ostacolo insormontabile nel legame col modello politico e socio-economico cui faceva riferimento (quello tipicamente americano). Il wokismo non ha nè vincoli nè confini, ma è un fenomeno universale e totalizzante che risulta la perfetta ideologia imperiale (rivolta per natura all’espansione continua). Questa nuova classe dirigente americana è molto più radicale e aggressiva di quella conservatrice tradizionale, in grado di provocare un definitivo scollamento tra Stato-apparato e identità nazionale. Lo scopo è sempre conservare il potere, ma adesso con una protervia incontestabile. Gli episodi all’apparenza ridicoli, ma alla lunga pericolosi, che si verificano periodicamente (quali la riscrittura delle opere letterarie di Ronald Dahl, ritenute non abbastanza inclusive, oppure il licenziamento in Florida della professoressa che mostra agli alunni il David di Michelangelo, considerato “pornografico”) sono le conseguenze estreme del mondo conservatore e di quello progressista. Due dimensioni speculari per un unico american way of life. Non si può neanche “stare allerta” perchè là si dice woke e poi le mode americane si propagano ovunque.

 

Di solito i divi hollywoodiani sono noti per capricci e superficialità, ma un’eccezione è la figura “bella e dannata” di Keanu Reeves. A inizio carriera il suo nome (del nonno paterno) venne considerato troppo esotico, infatti è la versione corta della parola hawaiiana Keaweaheulu che significa “brezza leggera che sale (dal mare verso i monti)”. L’artista, ribelle e indocile, si è sempre distinto per la sua umanità, generosità e altruismo. Forse per questa singolarità è entrato nella cultura di massa come protagonista di diversi meme. Il più famoso (del 2010) è Sad Keanu, dove appare triste seduto su una panchina di un parco pubblico mentre mangia un tramezzino. In realtà non fa tanto ridere considerando le tristi vicende (lutti e disgrazie) che hanno colpito la sua vita privata. Keanu Reeves è avvolto da un’aura speciale che rende ogni sua apparizione “virale”. Così negli ultimi anni le ospitate al famoso The late show di Sthepen Colbert hanno commosso e colpito il pubblico. In una puntata alla domanda “Che cosa resta di noi quando moriamo?”, Keanu ha incantato con la sua saggezza e semplicità rispondendo, “Io so solo che le persone che ci amano sentono la nostra mancanza.”  In seguito attraverso il famoso questionario di 15 domande dello show (progettate per penetrare l’anima) è stato chiesto di scegliere una canzone da ascoltare per il resto della vita. Reeves, pur in difficoltà, ha risposto “Love Will Tear Us Apart” il brano dei Joy Division del 1980 pubblicato il mese dopo il suicidio del frontman Ian Curtis. Del resto Keanu Reeves è anche musicista suonando il basso nella sua band, e aveva già espresso il suo amore per gli eroi post-punk di Manchester. Aveva spiegato che Peter Hook dei Joy Division e poi dei New Order è il suo bassista di riferimento. “È una specie di linea di basso ma una linea di melodia”. “E un pò romanticamente epico, ma in un modo gotico”.
megliodiniente

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