pensieri

Il momento sbagliato e il posto sbagliato

 

 

Il politologo Samuel Huntington ha scritto nello Scontro di civilta’: “Oggi viviamo in un’ unica civilta’ globale”,la quale,tuttavia,”non e’ altro che un sottile strato di vernice” che “copre o nasconde l’ immensa varieta’ di culture,di popoli,di mondi religiosi,di tradizioni storiche e di secolari atteggiamenti brulicanti ‘al di sotto’ di esso”. Questa tesi relativa all’ equilibrio geopolitico post Guerra Fredda si contrapponeva all’ altra della Fine della storia teorizzata dallo storico Francis Fukuyama e appare oramai confermata. Chi credeva che l’ ordine fosse prevalso attraverso la globalizzazione guidata dalle liberal-democrazie occidentali si illudeva inverosimilmente,dato che la fine della Guerra Fredda non affermerebbe un modello unico ma anzi libererebbe le diverse civilta’ dal giogo del bipolarismo politico e ideologico Stati Uniti d’America e U.R.S.S. lasciandole libere di svilupparsi autonomamente. L’ osservazione di Huntington e’ che “gli equilibri di potere tra le diverse civilta’ stanno mutando” mentre “l’ influenza relativa dell’ Occidente e’ in calo”. I conflitti successivi alla Guerra Fredda si verificherebbero con maggiore frequenza e violenza lungo le linee di divisione culturale e non piu’ politico-ideologiche tipiche del XX secolo. Secondo Huntington la divisione del mondo in Stati e’ riduttiva e questo va invece suddiviso a seconda delle civilta’. Suppone che per capire i conflitti presenti e futuri siano da comprendere innanzitutto le divergenze culturali e che la cultura (piuttosto che lo Stato) debba essere accettata come luogo di scontro. Per questo motivo le nazioni occidentali potrebbero perdere il loro predominio nel mondo se non saranno in grado di riconoscere la natura inconciliabile di questa tensione. Nel mondo occidentale e’ in atto da decenni un processo di omologazione a causa dell’ utilizzo di nuovi strumenti tecnici e tecnologici che mirano esclusivamente al risultato economico. La vita sociale ha subito un arretramento anche sul piano creativo perche’ la ipersemplificazione di ogni aspetto fa prevalere la mediocrita’ a scapito del valore intrinseco. Infatti l’ erosione della creativita’ e’ sempre andata a braccetto con sistemi di produzione sempre piu’ ottimizzati. Siamo finiti in quello che il filosofo coreano Byung-Chul Han definisce l’ Inferno dell’ Uguale. “La societa’ digitale della trasparenza priva il mondo di aura e mistero”, spiegava in L’ espulsione dell’ altro. “La rete si trasforma oggi in un particolare spazio di risonanza dalla quale e’ eliminata ogni alterita’,ogni estraneità”. Da uno studio del Digital Lab dello Science Museum Group di Londra e’ emerso che le cose col passare del tempo sono diventate sempre meno colorate, convergendo su uno spettro tra acciaio e carbone,come se i consumatori volessero che i loro gadget assomigliassero sempre piu’ alle materie prime delle industrie che li producono. Si puo’ dire che il colore immaginario (il grigio) della vita sotto il comunismo si e’ rivelato essere la vera tonalita’ del capitale globalizzato (dall’ articolo Perche’ tutto e’ cosi’ brutto?). La ragione di questa uniformita’ sta in una filiera produttiva che premia l’ efficacia economica e l’ ottimizzazione rispetto alla celebrazione dell’ autentico valore del prodotto finale. Storicamente ogni innovazione in grado di snellire il lavoro ha sempre fatto piu’ danni che altro,passando da “semplice” a “semplicistico”. L’ ideologia globalista ha annullato anche la pregnanza del sacro almeno in occidente con la crisi del cristianesimo,al contrario l’ Islam e’ una religione potente che crede ancora nel paradiso e nell’ inferno,e quindi in comportamenti terreni che rendono possibile ottenere la salvezza o la dannazione post mortem. Questo e’ cio’ che gli da’ la sua forza,il suo potere e la sua efficienza politica,terrena. In realta’ l’ Islam non viene tanto a distruggere un mondo (giudaico-cristiano) vitale,quanto a prevalere su uno stato di decadenza. Il sistema ipercapitalistico ha determinato una societa’ “apatica,parassita,vigliacca, letale” (parafrasando il testo del 1917 Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci). Secondo il filosofo (tra i fondatori del Partito comunista d’Italia) “Chi vive veramente non puo’ non essere cittadino,e parteggiare.(…)Percio’ odio gli indifferenti. L’ indifferenza e’ il peso morto della storia. (…)L’ indifferenza opera potentemente nella storia.Opera passivamente,ma opera.           Cio’ che succede non e’ tanto dovuto all’ iniziativa dei pochi che operano,quanto all’ indifferenza,all’ assenteismo dei molti.Cio’ che avviene,non avviene tanto perche’ alcuni vogliono che avvenga,quanto perche’ la massa degli uomini abdica alla sua volonta’,lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potra’ tagliare,lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta fara’ abrogare,lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potra’ rovesciare.  Dei fatti maturano nell’ ombra,poche mani,non sorvegliate da nessun controllo,tessono la tela della vita collettiva,e la massa ignora,perche’ non se ne preoccupa.(…)Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare;ma la tela tessuta nell’ ombra arriva a compimento:e allora sembra sia la fatalita’ a travolgere tutto e tutti,sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale,un’ eruzione,un terremoto,del quale rimangono vittima tutti,chi ha voluto e chi non ha voluto,chi sapeva e chi non sapeva,chi era stato attivo e chi indifferente.E questo ultimo si irrita,vorrebbe sottrarsi alle conseguenze,vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto,che egli non e’ responsabile.  Alcuni piagnucolano pietosamente,altri bestemmiano oscenamente,ma nessuno o pochi si domandano se avessi anch’io fatto il mio dovere,se avessi cercato di far valere la mia volonta’,il mio consiglio,sarebbe successo cio’ che e’ successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza.  I piu’ di costoro,invece, ad avvenimenti compiuti preferiscono parlare di fallimenti ideali (…). Ricomin ciano cosi’ la loro assenza da ogni responsabilita’.  Odio gli indifferenti anche per cio’ che mi da’ noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente,di cio’ che ha fatto e specialmente di cio’ che non ha fatto.(…) E sento di dover essere inesorabile,di non dover sprecare la mia pieta’,di non dover spartire con loro le mie lacrime.  Sono partigiano,vivo,sento nelle coscienze virili della mia parte gia’ pulsare l’ attivita’ della citta’ futura che la mia parte sta costruendo.E in essa la catena sociale non pesa su pochi,in essa ogni cosa che succede non e’ dovuta al caso,alla fatalita’, ma e’ intelligente opera dei cittadini.Non c’e’ in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano,si svenano nel sacrifizio (…) Vivo,sono partigiano.Percio’ odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

 

Il tema ricorrente della cd. morte del rock risulta oramai banale ma soprattutto fuorviante. Il fatto e’ che il rock (come il jazz) e’ vivissimo perche’ buoni dischi sono periodicamente prodotti,ma non trovano piu’ un contesto idoneo alla loro vera essenza. Infatti il recente,travolgente,caso dei Måneskin o prima ancora dei Greta Van Fleet,dimostra come si consideri il rock un fenomeno mediatico secondo una immagine stereotipata (o vecchia) nei confronti di un pubblico non particolarmente interessato. Nella cultura popolare odierna prevalgono il pop e tanto hip-hop perche’ piu’ adatti alle nuove forme di distribuzione e fruizione,oltre che rispondenti ai nuovi canoni estetici. Nell’ epoca del web l’ essenza del rock e’ stata sostituita dal metodo della riproposizione/ rielaborazione del suo sterminato catalogo. Oggi non ci sono tanto gli ascoltatori che bramavano impazienti l’ ultima uscita discografica,quanto gli utenti dello streaming che dispongono con un click sia del disco o della canzone di quaranta/sessanta anni fa,sia dell’ ultimo lavoro appena pubblicato. Questa normalita’ per certi versi paradisiaca svuota di significato il rock,che non e’ piu’ un fenomeno culturale (e generazionale) come in passato. Lo dimostra la penetrazione trasversale del fenomeno Måneskin,che ammalia sia i ragazzini,sia i genitori e nonni. In definitiva il rock e’ vivo piu’ per la sua storia affascinante che suggestiona con i simboli della gioventu’,velocita’,ribellione, che per essere linguaggio diffuso. In ogni caso proprio la sua presa sull’ immaginario collettivo ne consente l’ utilizzo nell’ accompagnamento
musicale di spot,film e serie-tv,eventi come le sfilate di moda. Il rock e’ fortemente presente in virtu’ del suo appeal che di conseguenza non esprime la sua urgenza. L’ aspetto formale non significa necessariamente consistenza sostanziale: per cui diffidiamo delle imitazioni o delle apparenze.
I Greta Van Fleet sono un gruppo musicale rock statunitense formatosi nel 2012 a Frankenmuth nel Michigan. Il gruppo e’ formato dai tre fratelli Josh (voce),Jake (chitarra),Sam (basso) Kiszka e da Danny Wagner (batteria). Il nome della band e’ ispirato ad una donna (Gretna Van Fleet) vissuta per cinquant’anni a Frankenmuth. Nel 2019 hanno vinto il Grammy Award al miglior album rock per il doppio Ep From the Fires. Il loro successo non e’ stato immediato,anzi nel 2014 si verifica anche la cancellazione di alcune loro canzoni dal mercato discografico. Per il loro stile vengono spesso paragonati ai mitici Led Zeppelin in quanto la voce di Josh Kiszka sarebbe simile a quella di Robert Plant e il chitarrista Jake Kiszka ricorderebbe Jimmy Page. In proposito e’ significativa una dichiarazione di Plant:”C’e’ questa band chiamata Greta Van Fleet,hanno questo meraviglioso,giovane cantante,molto forte…lo odio!”.

 

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