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In memoria di Gordon Banks

Nato a Sheffield il 30 dicembre 1937, nemmeno diciottenne è notato dal Chesterfield che gli offre uno stage di tirocinio. Come maestri si ritrova Bert Williams del Wolverhampton, portiere dell’Inghilterra dal 1949 al 1956, e il leggendario Bert Trautmann, tedesco, ex prigioniero di guerra, grande numero uno del Manchester City dal 1949 al 1963. Grazie alle sue grandi qualità, passa dalla squadra giovanile a quella riserve e, a seguito della chiamata al servizio militare, è mandato in Germania, dove gioca come portiere della squadra del suo reggimento, vincendo la Coppa del Reno, torneo amatoriale per squadre militari. Il manager del Chesterfield, Ted Davison, gli offre a primo contratto da professionista non appena tornato alla vita civile. Nel 1956 arriva alla finale della Coppa di Inghilterra giovanile, perdendola contro i pari categoria del Manchester United, ma creando le premesse per il debutto in prima squadra, che arriva tuttavia quasi due anni dopo, nel novembre del 1958, quando la squadra milita in Terza Divisione.

Nel giugno del 1959 il Leicester City offre 7.000 sterline per il suo trasferimento: esordisce nella nuova squadra il 9 settembre di quello stesso anno in sostituzione del primo portiere Dave McLaren, uscito per infortunio. Nella seconda metà della stagione, dopo un breve periodo di alternanza con lo stesso McLaren, diventa titolare. Gioca con il Leicester le finali di Coppa di Inghilterra del 1961 (sconfitta contro il Tottenham per 2-0) e 1963 (sconfitta contro il Manchester United per 3-1), e quelle di Coppa di Lega del 1964 (vittoria per 4-3 contro lo Stoke City nel doppio confronto) e 1965 (sconfitta 3-2 contro il Chelsea). Rimane nel Leicester fino al 1966, quando dalle giovanili della squadra inizia a farsi strada il promettente Peter Shilton (che poi diventerà portiere titolare della Nazionale inglese fino al 1990). Sebbene Banks sia considerato il miglior portiere inglese del momento, è messo sul mercato dopo la conquista del campionato del mondo e acquistato dallo Stoke City per 52.000 sterline. Con la squadra di Stoke-on-Trent raggiunge la finale di Coppa di Lega del 1972, a Wembley, di nuovo contro il Chelsea che è battuto 2-1 e rappresenta l’unico trofeo conquistato nella propria storia. È l’anno in cui Banks è votato giocatore dell’anno in Inghilterra e riceve dalle mani della Regina l’OBE (Order of the British Empire), prestigioso riconoscimento.

Il primo ottobre 1972, di ritorno in auto a casa da una seduta con il massaggiatore, a seguito di un sorpasso azzardato si scontra frontalmente con un’altra auto, perdendo la vista nell’occhio destro. Si dedica, così, alle giovanili dello Stoke City ma, dopo qualche tempo, cede al richiamo del campo: si trasferisce negli Stati Uniti, giocando due stagioni (1978 e 1979), pur cieco da un occhio, con il Fort Lauderdale. Un’impresa che alimenterà la sua leggenda di straordinario fuoriclasse.

 

La storia di Gordon Banks in Nazionale è legata all’avvento nel 1962 sulla panchina inglese dell’ex difensore Alf Ramsey, che ha il compito di preparare al meglio la squadra per i Campionati del mondo 1966 casalinghi. Banks è chiamato nel 1963 per la prima volta in occasione del super classico Inghilterra-Scozia e, nonostante la sconfitta per 2-1, riceve la fiducia di Ramsey, che lo utilizzerà in maniera continuativa durante tutto il biennio di avvicinamento al Campionato Mondiale. All’epoca ventisettenne, Banks raggiunge la maturità agonistica e tecnica: prontezza di riflessi, freddezza e capacità di guidare la propria difesa sono le doti che convincono Ramsey a mantenerlo titolare in Nazionale, nonostante la presenza di altri buoni portieri. La fiducia di Ramsey sarà ben riposta, perché Gordon Banks subirà solo tre goal durante tutta la fase finale del Campionato del mondo, due dei quali nel corso della finale vinta dall’Inghilterra per 4-2 contro la Germania Ovest. La vittoria gli vale, nel 1970, l’onorificenza di Baronetto.

Banks è il portiere titolare anche della squadra che gioca il Campionato di Europa del 1968 in Italia (sconfitta per 1-0 a Firenze contro la Jugoslavia in semifinale e finale per il terzo posto vinta a Roma contro l’URSS per 2-1) e in seguito del Campionato del mondo del 1970 in Messico. Si rende protagonista del suo gesto tecnico più spettacolare proprio in quell’edizione del Mondiale, nell’incontro della prima fase Brasile-Inghilterra. «Quando ho visto il cross di Jairzinho sono arretrato a protezione della porta – racconta Banks – a metà della sua corsa, ho giudicato la parabola troppo alta, perché qualcuno potesse arrivarci. Poi però ho visto Pelé. Mi è sembrato salisse in cielo senza voler scendere più, fino a quando non ha colpito la palla piena, con la fronte, con grande forza, schiacciandola verso il palo alla mia destra, che mi pareva lontanissimo».

Più tardi Banks dirà di non essersi accorto di aver deviato il pallone, finché non vide Bobby Moore complimentarsi a scena aperta con lui, cosa che lo spinse a guardarsi alle spalle e accorgersi che il pallone era finito sui tabelloni pubblicitari a bordo campo invece che dentro la rete. Nasce così, per la spettacolarità e la tecnica del gesto, la parata del secolo: «In quel momento ho odiato Banks più di ogni altro calciatore al mondo, non potevo crederci. Ma quando è passata l’ira, ho dovuto applaudirlo con tutto il cuore. Era la più grande parata che io avessi mai visto», dice Pelé. La partita finisce 1-0 per il Brasile, anche se la sconfitta non compromette la qualificazione dell’Inghilterra ai quarti di finale, battuta ai supplementari per 3-2 dalla Germania Ovest. Banks è costretto a saltare il match, fermato dalla cosiddetta “Vendetta di Montezuma” (un’indisposizione intestinale) ed è sostituito da Peter Bonetti.

Dal 1970 al 1972 Banks gioca altre dodici partite in Nazionale, condividendo con Shilton la difesa della porta inglese, finché nell’ottobre del 1972 l’incidente automobilistico mette di fatto la parola fine alla sua carriera. Banks deve rassegnarsi al fatto che la perdita della visione binoculare è un ostacolo insormontabile, almeno per giocare ai massimi livelli. Gordon Banks resta nella storia del calcio mondiale non soltanto per la prodezza di Guadalajara. Fu un portiere moderno, incredibilmente abile nelle uscite, acrobatico e scattante fra i pali, un atleta completo. Aveva uno strano sorriso cavallino, era un po’ strabico, carattere estroverso e allegro. Giocò ben settantatré partite in Nazionale, oltre 500 nel campionato inglese, fu campione del mondo, negò a Pelé un goal che sarebbe rimasto memorabile. Può bastare per riempire una vita.

 

Jairzinho scappò a destra. Veloce. Andò via a due dei nostri e vide che, nel frattempo, Pelé stava prendendo posto al centro dell’area. La palla fece un volo fino alla testa di O Rei. Una questione di mezzo secondo. Pelé staccò allo stesso modo con cui in finale avrebbe punito l’Italia, ma schiacciò a terra, con violenza. La palla picchiò dentro l’area piccola e schizzò verso la porta. Il fatto vero successe lì. In porta. Dove ero io, Gordon Banks. Ero all’epoca il portiere dei campioni del mondo in carica. L’Inghilterra. La sfida con il Brasile, quel giorno del 1970 a Guadalajara, era stata chiamata la sfida fra titani. Lo sapete come sono i giornalisti, esagerano sempre. Dissero titani perché in campo c’erano i vincitori delle ultime tre Coppe del mondo. Brasile 1958, Brasile 1962, Inghilterra 1966. Di me raccontavano che avessi un sorriso che pareva una smorfia. Tipo Clark Gable. Ma senza baffetti. Ero scattante, acrobatico, bravo in uscita. Con me l’Inghilterra era rimasta senza sconfitte per ventitré partite consecutive e senza prendere goal per sette. Ad avercelo oggi, in Inghilterra, un Banks. Quel giorno a Guadalajara, la palla picchiò dentro l’area piccola e schizzò verso la porta. Ero tutto spostato sul palo di sinistra, non potevo scartare l’idea che Jairzinho puntasse verso la porta, ma si defilò. In area c’era liberissimo Tostão, lo avevamo lasciato solo. Se Jairzinho gliela avesse passata, non avrei potuto farci nulla. Invece, mise in mezzo una palla lunga. Allora feci due saltelli e mezzo laterali verso destra e mi lanciai. Presa. Non chiedetemi come. Non chiedetemi perché. Ma ce la feci. Se Cruijff è l’autore del goal impossibile, io sono il portiere della parata impossibile. Pelé rimase come una statua. La chiamano ancora oggi la parata del secolo. Ne fui fiero. Non tanto per il complimento in sé, quanto perché ero cresciuto con l’idea che i portieri inglesi fossero i migliori del mondo, ed io volevo essere all’altezza della loro fama. Sam Hardy, Harry Hibbs. Quei due giganti lì. Ho un solo rimpianto. Non esultai. Mi sa che dovevo. Rimasi a terra seduto accanto al palo con la testa bassa. Nelle foto sembro uno sconfitto e una foto è per sempre. Ero esausto e, se devo dirla tutta, non sapevo neppure dove fosse finita la palla. Non mi ero accorto di aver evitato il goal. Avevo sentito Pelé gridare e poi il boato della folla. Non capii nulla fino ai complimenti dei compagni. Fu allora che mi voltai e vidi il pallone sui cartelloni pubblicitari, non in fondo alla rete. Il boato era per me. Cooper mi passò una mano tra i capelli. Pelé disse: «Ti odio». Bobby Moore mi fece ridere: «Stai diventando vecchio Banksy, un tempo l’avresti bloccata».

Passammo il girone nonostante la sconfitta contro il Brasile, nel secondo tempo ci fece goal Jairzinho. Ma uscimmo nei quarti di finale. Contro la Germania. Quella partita però non la giocai. Non potevo. La sera prima mi mise KO una pessima bottiglia di birra. Germania avanti. Pensateci. Senza quella birra, non ci sarebbe mai stato il 4-3 con l’Italia. Ho vinto una Coppa del Mondo, eppure sarò ricordato per quella parata su Pelé. Non c’entro io, c’entra il Brasile. La squadra del 1970 è stata la più bella macchina da calcio di sempre. Il punto più alto. Avevano almeno cinque fuoriclasse. Eppure uscii dal campo con la sensazione che non avremmo meritato di perdere.

Sono cresciuto in una zona operaia dello Yorkshire. Per migliorare un po’, mio padre ci portò tutti a Catcliffe, si era messo in testa di aprire un negozio di scommesse. Ci diede prosperità, ci tolse la gioia. Un giorno assaltarono il negozio per portarci via l’incasso, mio fratello era dentro, fece resistenza, lo lasciarono a terra senza forze. Mio fratello era disabile. Morì qualche settimana dopo. Per dare una mano, lasciai la scuola e cominciai a lavorare. Trasportavo carbone e andavo a vedere le partite del Millspaugh, una squadra di dilettanti. Un giorno il loro portiere non si presenta al campo. Sparito. Vedo un tipo che mi chiama. «Ehi tu, vieni qui». Era l’allenatore. Mi aveva intravisto tra gli spettatori. «Se non ricordo male – mi fa – giocavi con la squadra studentesca di Sheffield». Era vero. «Allora scendi, oggi ci servi». Ho cominciato così. E quando iniziò a girare la voce che fossi bravino, il Chesterfield (Terza Divisione) venne a offrirmi sei partite di prova e un contratto di tre sterline a settimana. Avevo svoltato. L’anno dopo, ne guadagnarono 7.000 cedendomi al Leicester. Ero in Prima Divisione.

Ho saputo che avrei giocato in Nazionale attorno al piccolo tavolo da biliardo del centro sportivo. Era lì che ci si incontrava alla fine degli allenamenti. Giocavamo a carambola, quando entrò Matt Gillies, il nostro allenatore, uno scozzese. Si avvicina, mi stringe la mano e dice: «Congratulazioni, ti hanno chiamato». «Chiamato dove?», rispondo io. «In Nazionale: perfino gli inglesi hanno capito che sei bravo». Gira le spalle e se ne va. Non potevo crederci e ancora mi domando come facesse a saperlo. Forse Alf Ramsey dovette dirglielo. A me parve uno shock. Quando vincemmo il Mondiale nel 1966, c’erano almeno altri cinque portieri inglesi bravi quanto me. E sapete perché? Perché ovunque ti girassi, in strada all’epoca c’erano bambini che giocavano a calcio. Oggi puoi guidare per miglia e miglia, in strada non vedresti neanche un pallone. Se entravi in tackle e non ti eri fatto niente, ti alzavi, toglievi l’erba dai pantaloncini e andavi avanti. Questa è la differenza con il calcio di ieri. Uno di quei ragazzi era Peter Shilton. Era proprio di Leicester, aveva frequentato le squadre giovanili da quando aveva tredici anni. Avvertii i dirigenti che ci sapeva fare e, nell’estate del titolo mondiale, gli proposero il primo contratto da professionista. Non aveva ancora compiuto diciassette anni. Shilton ne fu felice. Felicissimo. Ma si dimenticò di ringraziarmi. Fece di più. Chiese di essere considerato titolare al posto mio, al posto dell’unico portiere inglese campione del mondo nella storia del calcio. «Firmo se Banks va via», la mise così. Diede un’alternativa. «Firmo, se Banks mi fa da riserva».

Roger Hunt, attaccante del Liverpool e mio compagno in Nazionale, mi consigliò di aspettare e di non prendere decisioni. «Bill sta pensando a te», mi sussurra. Bill Shankly, il loro manager. «Se il mio lavoro fosse strofinare pavimenti, io vorrei che il mio pavimento fosse più pulito del vostro». Bill Shankly diceva frasi come questa. Non c’era calciatore, in quegli anni, che non fosse affascinato da lui. «Fantastico – dico io – da voi verrei di corsa». Aspetto. Le settimane passano e non succede niente, nessuno chiama da Liverpool, nessuno si fa vivo. Non ho mai più saputo cosa sia successo, al Liverpool non andai mai ed io, campione del mondo, venni ceduto allo Stoke. Accontentarono Shilton. Dal 1970 Shilton diventò il mio rivale anche per la maglia della Nazionale. Abbiamo convissuto fino al 1972, ho giocato altre dodici partite. Fino al 22 ottobre. Tornavo a casa da una seduta di fisioterapia, persi il controllo della macchina e finii in un fossato. I medici fecero miracoli, tranne che per l’occhio destro. Non vedevo più come prima. La mia carriera è finita lì. Lo Stoke prese un nuovo portiere: Shilton. Ma non dite che Peter mi ha portato via tutto. Non mi toglierà mai la Coppa del Mondo. Non mi toglierà mai la parata del secolo.

(Stefano Bedeschi)

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