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LUCE SOFFUSA PER GRANDI CANZONI Intervista ai Chasin Godot

LUCE SOFFUSA PER GRANDI CANZONI

Intervista ai Chasin Godot

A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage

Non è fortuna, assolutamente, è voglia di conoscere, di ascoltare e di divulgare. La grande musica arriva alle orecchie se hai voglia di cercarla. Perchè la realtà non è soltanto quella imposta dal sistema, e qui mi fermo per non arrabbiarmi. No, non lo è affatto, anzi, il meglio vibra nel famoso sottobosco e noi di MDN siamo sempre qui a gridarlo. Prendiamo per esempio gli ospiti di oggi, i brianzoli Chasin Godot, e analizziamo la forza emotiva e artistica contenuta nel nuovo Songs By The Dim Light, un disco vero e intenso, naturale come la voglia di cambiare il mondo. Ecco, questa è musica, non nel senso assoluto, ci mancherebbe, ma in termini di essenza e di flusso. I ragazzi hanno collezionato ascolti importanti, assimilato concetti, e l’album è davvero una chicca. Parliamone, allora, senza dimenticare l’opera di Beckett o la poetica di Leopardi. Così, per spiegare bene il tutto…

INZIALI DEI COMPONENTI:

L: Lorenzo, chitarrista

M: Matteo, voce e tastiere

S: Simone, batterista

P: Perez (Simone) bassista

Bene, eccoci qui. Prima di parlare del disco, album che ho avuto il piacere di ascoltare in anteprima, presentiamo la band ai lettori di MDN. Chi sono i Chasin Godot?

L: Siamo prima di tutto un gruppo di amici cresciuti in Brianza. Io e Simo (il batterista) suoniamo insieme da quando avevamo 9 anni — praticamente da quando riuscivamo a malapena a tenere le bacchette e la chitarra in mano. Perez (al basso) lo conosciamo dai tempi del liceo, mentre Teo (alla voce) l’ho incontrato all’università, ed è lì che il progetto ha preso forma: volevamo creare qualcosa di nostro, che non suonasse come l’ennesima copia. Il resto si è costruito strada facendo… e in realtà continua a costruirsi ogni giorno.

Aspettando Godot è il titolo della famosa opera teatrale del drammaturgo Samuel Beckett. Il nome del vostro gruppo è un palese richiamo. Voi inseguite, però… Come è nato il discorso?

L: Ricordo che eravamo seduti in taverna da Simo, a cercare idee per il nome, quando mi è venuto in mente Aspettando Godot. Ho sempre trovato geniale l’opera di Beckett: rappresenta in modo assurdo ma lucidissimo la condizione umana, questa eterna attesa di un senso, un segno, qualcosa. Solo che noi, in quel momento, non stavamo aspettando… stavamo cercando. Cercavamo un’identità, qualcosa che ci definisse. Così è nato il nome, e con lui — se vogliamo tirarcela un po’ — anche la nostra “poetica”. Non crediamo che ci si debba limitare ad aspettare: si può — e forse si deve — cercare attivamente un senso in questo viaggio. Sapendo che, sì, probabilmente non arriverà mai una risposta definitiva. Ma forse, come diciamo in Wanderer, una delle canzoni del primo EP, la ricerca è la risposta stessa.

Songs By The Dim Light propone sì una vasta gamma di idee, ma delinea anche piuttosto bene la vostra concezione artistica, la strada che avete in mente di seguire. Natura classic rock e, al contempo, riff e momenti più alternativi. Oh, senza farsi nemmeno mancare licenze varie. Quanto siete orgogliosi di questo disco e quali sono secondo voi i punti di forza?

L: È un lavoro che è nato e si è sviluppato nel tempo, in modo naturale. Prima nelle nostre camerette, con gli audio whatsapp, poi in sala prove, nei live e infine si è rifinito in studio. L’abbiamo fatto con la sola idea di fare qualcosa che ci piacesse, che rappresentasse noi e come vediamo il mondo, che raccontasse la nostra storia. Nessun retropensiero per essere radio-friendly, di adeguarsi a trend e mode. Penso che questo sia il punto di forza e di debolezza: un lavoro profondamente genuino, ma che non si incanala in mode attuali né rispetta alcune regole ormai fondamentali… ad esempio la durata delle canzoni. Però lo rifarei.

Le strutture musicali ben concepite e suonate e lo spiccato senso delle melodie intonate da Matteo rendono l’esperienza di ascolto piacevole e appagante. Penso sia proprio questa la giusta chiave di lettura. E poi mi piace molto il clima, come dire, molto novantiano, vivo e diretto. Cosa mi dite?

M: Ci siamo divertiti a comporre strutture musicali che combinassero i vari frammenti che raccoglievamo nel tempo. Un riff di chitarra registrato d’istinto, una linea vocale canticchiata e appena abbozzata o un arpeggio improvvisato al pianoforte. L’elemento di forza dell’album credo sia proprio qui, il fatto che mantenga una certa spontaneità e varietà negli elementi che lo compongono, ma sia anche in grado di restituire un’immagine e una visione coesa. Le melodie nascono per essere cantate, e non per incastrarsi semplicemente su degli accordi decisi a tavolino. D’altra parte, la musica si prende sempre il suo tempo, con una dinamica interna che sfocia spesso in un assolo strumentale o una variazione sul finale. L’apoteosi di questo è in Beyond Closed Doors, che reinterpreta il concetto di suite musicale tipica degli anni ‘70.

Parliamo ora dei tre singoli estratti. Dai, qualche parola su questi brani…

L: In the Devil’s Shoes forse è il testo più “azzardato” dell’album. È un brano di denuncia e un omaggio a John Lennon e agli U2. Non vorrei andare oltre nello spiegarlo, vi invitiamo a leggerlo con calma, in prima persona. Il tema etico è sempre un terreno scivoloso: il rischio di risultare banali o moralisti è dietro l’angolo. Ma siamo cresciuti ascoltando musica che non aveva paura di dire qualcosa, che faceva pensare, che osava. E ci è venuto naturale provarci anche noi. Dal punto di vista musicale, invece, c’è una chicca di cui andiamo fieri: il basso slappato del nostro Perez.

M: Mirrors è un grande affresco del ‘900. Mi sono divertito a inserire nel testo riferimento a opere letterarie, pittoriche e cinematografiche che mi hanno in qualche modo segnato. Credo che, dal punto di vista musicale, sia una delle nostre migliori realizzazioni. È l’esempio lampante della fusione di parti nate indipendentemente e poi fuse insieme. L’arpeggio di piano a terzine, già nel mio archivio audio, si incastra col riff binario di chitarra di Lorenzo sulla strofa creando un senso di disequilibrio e slancio che è esemplificativo di ciò che la canzone racconta. Stessa cosa per la melodia spezzata e saltellante del bridge, che rimane impressa per la sua semplicità e che restituisce un senso di profonda incertezza e insicurezza verso il nostro tempo. Dal punto di vista strutturale, la ripetizione di tre strutture egualmente rilevanti (strofa, bridge, ritornello) crea un crescendo continuo che sfocia in un finale modulato in tonalità maggiore, inaspettato ma assolutamente funzionale a dare una chiusura positiva alla narrazione. La musica e il testo sono sinergici, e funzionano proprio perché concorrono a raccontare qualcosa del brano.

S: Chambers è figlia della pandemia: una riflessione intima nata durante il lockdown, quando la vita sembrava essersi fermata e le connessioni umane si riducevano a echi lontani. Un periodo del quale tutti conserviamo un ricordo al tempo stesso vivido e quasi “fatato”, frutto del tempo trascorso nelle nostre stanze e con i nostri affetti più intimi, mentre la società, i suoi tempi e i suoi bisogni stavano fuori ed echeggiavano come un temporale lontano. Chambers si prende il suo tempo tra intro, strofe e ritornelli, per poi incalzare con la chiusura strumentale affidata a Coda: dei tre singoli è il mio preferito, e credo sia quello che più racconta di noi a livello musicale e artistico.

Carillon è la quinta traccia, Breakdown è la sesta. Una ballad delicatissima prima e una botta di energia rock subito dopo. Insomma, quando prima ho parlato di grande apertura, intendevo proprio questo. Come siete arrivati alla definita scaletta?

L: Ci piace giocare con la dinamica e il contrasto, sia all’interno della stessa canzone che tra una traccia e l’altra. Personalmente credo che l’arte ne abbia bisogno: serve a far risaltare ogni singola parte del tutto — che sia in una storia, in una canzone o in un album. Questo approccio ha sicuramente influenzato la scaletta, ma c’è anche una progressione narrativa dietro. L’album è pensato come un percorso che va dall’interno verso l’esterno. La prima metà è più introspettiva, centrata sul mondo interiore, su un viaggio personale. Poi, da Breakdown in avanti, tutto si apre: quelle riflessioni intime iniziano a confrontarsi con il mondo là fuori. E lì nasce il conflitto, la dissonanza, la reazione. Penso che anche a livello sonoro si senta questo cambio di passo.

Il titolo del lavoro, una volta ascoltate le tracce, risulta parecchio azzeccato: penombra, luce bassa, al servizio delle canzoni. Ecco, come lo avete scelto?

M: All’inizio avevamo pensato a un titolo più didascalico, qualcosa tipo Beyond Mirrors and Closed Doors, che richiamasse in maniera più diretta i titoli di alcune canzoni. Mi sembrava però che il tentativo di essere precisi ci stesse allontanando dalla visione generale dell’album, lasciando molte cose inespresse. Ricordo che un giorno, nei miei momenti di ricerca di ispirazioni, sono incappato in una poesia di Leopordi, Le Ricordanze, che in un passaggio recita: “alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto, ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto”. Mi è sembrato immediatamente calzante per rappresentare l’essenza del nostro album. Le canzoni che lo compongono raccontano di un’oscurità intorno a noi, che stiamo vicini a una luce che sembra doversi spegnere da un momento all’altro. E noi, col tempo che ci sfugge inesorabilmente tra le mani, possiamo solo provare a lasciare un piccolo segno col nostro canto.

Quali sono i vostri artisti di riferimento? I nomi dei gruppi che più avete amato nel corso del tempo. Ne avrei in mente un po’, ma sicuramente saprete stupirmi…

M: Amo l’idea di Rock come espressione di irrequietezza e ricerca continua, quindi non posso che citare gli U2 dei primi anni, fino ad Achtung Baby. D’altra parte, mi ritrovo nella autorialità e letterarietà dei testi di autori come Dylan e Springsteen, e nel modo fantasioso di costruire canzoni ad incastro tipico dei Beatles degli ultimi anni. Mi affascina il modo in cui il rock abbia raccontato la sofferenza umana, la depressione e lo struggimento dell’anima, nelle melodie graffiate di Kurt Cobain, Layne Staley, Ian Curtis e Jeff Buckley.

P: In passato ho ascoltato tanto Foo Fighters e Muse, adesso sto apprezzando molto i REM e Cranberries. Invece un gruppo italiano che mi ha stupito per suoni e testi sono gli Zen Circus

S: Abbiamo riferimenti musicali abbastanza eterogenei, è una caratteristica che ci contraddistingue. Io sono un classicone: per le parti di batteria cerco di ispirarmi a Dire Straits e Police. Altri miei riferimenti sono Eric Clapton, Paul Simon, Led Zeppelin, Doors, Nirvana…

L: Red Hot Chili Peppers, ma più precisamente Frusciante, Nirvana, Pearl Jam, ma anche Led Zeppelin, Verdena… Poi ci sono le influenze più recenti, come i Fontaines DC, Wolf Alice ecc.

Un paio di dischi da portare sulla famosa isola deserta?

L: Aiuto, è difficile. Ne scelgo uno recente e uno meno recente. Californication dei RHCP e Chaos For The Fly di Grian Chatten, il frontman dei Fontaines DC-

M: Ti cito due album che mi hanno sempre commosso per la forza emotiva dei testi e del cantato, The Joshua Tree degli U2 e Nebraska di Bruce Springsteen

P: Stadium Arcadium dei RHCP e The Resistance dei Muse

S: Vado con due live: Unplugged in New York dei Nirvana e The Concert in Central Park di Simon&Garfunkel.

Musica in Italia. Tutto ciò che volete dirmi…

L: La musica italiana ha una sua storia, un suo linguaggio, un suo trend. C’è del cantautorato contemporaneo molto interessante e ovviamente dei mostri sacri nel passato, che hanno lasciato un segno. Per quanto riguarda il rock, in Italia è sempre stato meno mainstream rispetto ad altri paesi. E chi ascolta rock, spesso, è piuttosto diffidente verso tutto ciò che è nuovo e soprattutto italiano. Basta dare un’occhiata alla programmazione della principale radio rock nazionale per rendersene conto. E per la musica emergente… sarebbe un discorso lungo. Il punto è che manca un vero “ecosistema”: ci sono pochi locali disposti a investire, e poche occasioni reali per creare una scena dal vivo. È una matassa difficile da sciogliere: i locali dicono che non c’è pubblico, il pubblico manca perché non si crea un movimento, e così si va avanti a vuoto. Ma qualcosa si muove, anche se sottotraccia — e lì vale sempre la pena esserci.

State organizzando qualcosa per promuovere dal vivo il disco?

P: ci saranno dei concerti, ma al momento è tutto in divenire. Ti faremo sapere.

Salutate, allegando ovviamente tutti i vostri link più importanti…

L: Saluti a tutti e, se vi abbiamo incuriosito, seguiteci e ascoltate il nostro album. E se vi piace, raccomandatelo agli amici, ai parenti, al barista di fiducia. Un grazie di cuore a te, Ricky, e alla redazione: non è così scontato trovare oggi un interesse genuino per la musica indipendente, e per noi significa tanto.

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