Arriva a Torino nell’estate del 1995, dopo aver trascorso nella Sampdoria una parte importante della sua carriera; sei stagioni, dopo essere approdato a Genova dalla Cremonese; in pratica, lo stesso tragitto percorso da Vialli, il quale, come Attilio, si è prima imposto all’attenzione con i blucerchiati di Mantovani ed ha poi salutato il mare e il sole della Liguria, per tuffarsi in una nuova esperienza a Torino. Cammini paralleli, dunque, che si ricongiungono sotto la Mole Antonelliana. «È stupendo giocare nuovamente con Luca – dice il giorno della presentazione in bianconero – perché è un amico e perché, con la sua personalità, aiuta tutta la squadra. In passato, hanno provato a metterci l’uno contro l’altro con una polemica sulla Nazionale e sulla sua esclusione, ma non ci sono riusciti; io e Luca ci siamo spiegati e tutto si è sistemato».
Come Vialli, Jugović e Vierchowod, anche Lombardo è reduce di quella bruttissima notte londinese, quando la Sampdoria fu sconfitta dal Barcellona di Cruijff in finale di Coppa dei Campioni, dopo essersi illusa di poterla conquistare: «È una sconfitta che brucia ancora, spero di riuscire a rimarginarla grazie alla Juventus». Giocatore molto eclettico, dotato di una progressione eccezionale e di una buona dose di freddezza sottorete, arriva alla Juventus con tantissimo entusiasmo: «Arrivo a Torino nel momento più bello, ma anche più impegnativo; non sarà facile migliorarsi, dopo tutto ciò che la squadra è riuscita a fare nell’ultima stagione, ma faremo di tutto per riuscirci».
La stagione parte malissimo, Lombardo si infortuna nel precampionato, in un’amichevole contro il Borussia Dortmund, disputata a Cesena: «Il mio è stato un infortunio del tutto casuale e, forse, proprio per questo un pochino più complicato dei classici del genere. Infatti, oltre alla frattura del perone, c’è stata la distrazione ai legamenti della caviglia. Per me è una sensazione nuova. In tutta la carriera, non ho mai avuto un infortunio grave: era destino che mi capitasse proprio adesso».
Lippi fa sfoggio di filosofia: «L’infortunio di Lombardo non ci voleva, ma questo è il calcio e non ci possiamo fare nulla. Anche lo scorso anno ce ne sono capitate di tutti i colori, ma non per questo la Juventus ha allentato la presa sugli obiettivi. Ho detto ad Attilio di non abbattersi e di stare tranquillo: i suoi compagni si impegneranno al massimo per fargli trovare, al suo rientro, una Juventus ben piazzata».
Tre mesi dopo, è novembre inoltrato – scrive Emanuele Gamba sul “Guerin Sportivo” – incombe la nebbia e dalla nebbia sbuca un sorriso. Attilio Braccio di Ferro è pronto, è guarito, sta dimenticando. L’attesa è finita, il match con il destino è tornato in parità. «Toccando ferro, eccomi qui. Sono pronto». Pronto per riattivare quella serie da record: 144 partite consecutive in Serie A, senza una squalifica, senza un raffreddore. «A pensarci bene, in effetti, è pazzesco. Non ho mai avuto problemi in tutta la mia carriera, cambio squadra e crac, mi capita uno dei peggiori infortuni possibili. Pazzesco». Gira una storiella, tra Bogliasco e Torino. Si racconta che chi deve lasciare la famiglia–Samp per la ricca Juventus deve pagare una sorta di pedaggio, superare una specie di prova del fuoco. Capitò a Vialli (elenco dolorosamente lunghissimo di disavventure) e adesso, tutto in un colpo, a Vierchowod, Jugović e Lombardo. Un pneumotorace, uno strappo, una frattura. «Eh sì, non, facciamo giri di parole. Dicono che passare dalla Samp alla Juve porti sfiga. Non so se crederci oppure no. Ma di sfortuna ne ho avuta tanta, davvero». Perché adesso Lombardo deve ricominciare daccapo, da zero. «Ero qui da quindici giorni, avevo appena fatto in tempo ad assaggiare questa nuova dimensione quando è accaduto il fattaccio. Soffro ancora adesso che sono guarito». La sofferenza di Lombardo è stata (è) bipolare. Il dolore alla gamba e il dolore mentale, questo è il doppio tormento. E poi, quella vita senza raffreddori ha fatto in modo che tutto si concentrasse in un solo momento, amplificando gli effetti del male: «Verissimo. Ho visto tanti miei compagni fermarsi per gli infortuni più disparati, ma non ho mai colto in pieno i loro problemi. Finché capita agli altri, tu ti senti immune, non capisci, non ti preoccupi. Perciò per me, che non ero abituato a stare fuori, è stato ancora più difficile. Una questione psicologica, soprattutto: stare a vedere i compagni che lavorano sul campo mentre tu resti a guardare è davvero dura». Ora si tratta di capitalizzare l’esperienza vissuta, di trasformarla: «Sì, essendo stata un’esperienza completamente nuova è chiaro che mi lascerà il segno. Ho vissuto una dimensione diversa, mi servirà». Reinhardt, si chiama il destino. «Non provo rancore nei suoi confronti, non l’ho mai provato. E non sento istinto di vendetta: lo ritroverò in Champions League, ma me ne starò buono. Questo non annulla la mia convinzione, che coltivo da quella sera: quell’intervento poteva essere evitato, sicuramente, anche se non c’era l’intenzione premeditata di fare male». Tre mesi per meditare, per pensare. Per tracciare bilanci: «Ho perso molto, ne sono sicuro. Soprattutto, mi è mancata la possibilità di inserirmi immediatamente nel gruppo per cominciare nel modo migliore la nuova avventura. Anzi, visto l’infortunio posso dire che la nuova avventura non è nemmeno cominciata. Il fatto è che la grande forza della Juventus risiede proprio nello spirito di gruppo, nell’atmosfera che regna in ritiro, nello spogliatoio. Non poterla respirare è un vero handicap. Anche se, onestamente, tutti mi sono stati vicini. A cominciare da Lippi, che da toscano verace ha sempre una parola buona, utile. Lui ha grande esperienza, cura ogni dettaglio, cerca sempre di dare una mano a chi è in difficoltà». Buoni incontri, tipo Lippi. Oppure conoscenze terrificanti. Tipo Ventrone… «Eh sì, è davvero un aguzzino… Però è un lavoratore straordinario, preparatissimo. Praticamente sono stato sempre alle sue dipendenze, e mi ha fatto sudare come un matto. Ha davvero lo spirito del vecchio marine». E chissà quante volte Braccio di Ferro ha maledetto quel giorno in cui decise di lasciare casa–Samp, di abbandonare la famiglia Doria, di tuffarsi nel futuro. «No, non sono pentito della scelta che ho fiuto. Sono stato io a volere la Juventus. Quando Mantovani mi comunicò che aveva intenzione di cedermi per il bene della società, io ho chiesto di essere trasferito a Torino. Quindi non rinnego nulla. E chiaro che c’è un po’ di nostalgia, ma è normale quando si lasciano degli amici. Però non ho mai pensato nemmeno una volta di tornare indietro, anche se qui è tutto diverso: non c’è mai contatto con la dirigenza, il valore massimo è la professionalità. E poi quando apro la finestra non vedo più il mare di Nervi… Comunque anche la mia nuova città mi piace, pure mia moglie è soddisfatta. Abito in centro: alcuni non lo sanno, ma Torino ha degli angoli affascinanti». Tre mesi di solitudine, a confrontarsi coi propri problemi. Con i sogni. Con le angosce. «Cominciamo con i sogni: io spero di potere tornare in Nazionale. L’ho abbandonata a giugno, adesso che sono guarito mi ricandido. Non ho perso le speranze. Anche se è giusto che io faccia i complimenti a Di Livio, che ha preso il mio posto sia nella Juve sia in azzurro. Però chi dice che non possiamo giocare insieme?». E la solitudine, Attilio? «Quella non è stata un peso. Perché è vero quello che si dice: gli amici si scoprono nel momento del bisogno. Ho sentito i vecchi compagni della Samp, della Cremonese. E questo in fondo era normale. Le emozioni arrivano quando dall’Inghilterra telefonano Platt e Gullit, quando dal Giappone chiama Zenga, che allora era in tournée. Posso dire che per me si è mobilitato mezzo mondo… Purtroppo, con Walter ho dovuto ricambiare poco dopo». Quel che pesa, adesso, è l’angoscia: «Momenti brutti ne ho vissuti tanti, in questi mesi. Diciamo tutti e nessuno, anche se quando ho tolto il gesso credevo già di essere alla fine della convalescenza e invece si trattava soltanto dell’inizio della sofferenza. Una paura la coltivo, confesso. Temo di tornare in campo condizionato, portandomi addosso la fobia del contrasto, il terrore di rifarmi male. Mi dicono che sia normale e che passerà, ma purtroppo non potrò saperlo, fin quando non ricomincerò a giocare a tempo pieno». E allora in bocca al lupo, sfortunato Popeye, anche se il difficile viene adesso: bisogna trovare la forma, trovare il ritmo della partita, trovare un posto, trovare tutto. «Penso e ripenso all’esempio di Vialli, a tutte le volte che sembrava finito e invece è ripartito più forte di prima. Io ho una sola certezza: adesso non ho voglia di giocare, ma ho una super–voglia, una voglia doppia. Tanto Lippi adora il turn–over, no?».
Attilio fatica a ritrovare il posto in una Juventus che sta volando a gonfie vele verso la conquista della Champions League. Qualche goal importante contro il Padova e l’Inter, ma nelle partite che contano, siede in panchina. E nella gloriosa serata dell’Olimpico, Lombardo guarda, dalla tribuna, i compagni sollevare la “Coppa dalle grandi orecchie”. L’anno successivo, riesce a ritagliarsi uno spazio importante nella squadra bianconera, partecipando al successo in campionato e alla sfortunata finale di Champions, a Monaco di Baviera, contro il Borussia Dortmund. Rimane negli occhi di tutti i tifosi della Vecchia Signora” la grandissima partita di Lombardo e di tutta la Juve contro l’Ajax, in semifinale. Un 4–1 che non ammette discussioni, con le reti di Bobo Vieri, Nick Dinamite Amoruso e una perla di Zidane, che mette a sedere i difensori olandesi, Van der Sar compreso. Anche Attilio mette il timbro sulla vittoria con un bellissimo colpo di testa sottomisura.
Scrive Repubblica.it: «Lombardo è convinto: “Una giornata bellissima, meritavamo la finale”. È stata un’altra notte di Juve alternativa, dopo mesi di giostre e carambole tra titolari e riserve, ex intoccabili e nuove proposte. Mancava solo Attilio Lombardo nella schiera dei risorti, sulla corsia dei miracolati. Lombardo che un anno fa credeva, temeva di essere un ex giocatore con una gamba rotta e qualcos’altro, dentro. Non riusciva a guarire, poi non riusciva a prendersi un po’ di spazio in una squadra intasatissima. Ha rifiutato di chiudere la carriera in Inghilterra, allo Sheffield, dando un dolore ai dirigenti e al cassiere bianconero, ma alla fine ha avuto ragione lui. Recuperato in formazione all’ultimo secondo, perché Porrini proprio non ce la faceva, Lombardo è finito in campo per scivolamento, per forza d’inerzia: Jugović squalificato, Di Livio a sinistra, Tacchinardi stopper e il vecchio Attilio a destra, nell’ultimo posto libero. E quando nella selva dell’area olandese è spuntata la sua capoccia lucida per correggere in rete il pallone di Zidane, forse l’ultimo a crederci è stato proprio Lombardo. Il quale, qualche minuto prima, avrà visto Conte scaldarsi a bordo campo, forse per sostituire lui. Destini, casi della vita. Altro che fuori, ben dentro la sua partita è rimasto Attilio braccio di ferro, e cuore di conseguenza. Un minuto dopo il goal, ecco l’assist a Vieri per chiudere la questione, per cancellare dalla geografia europea il calcio del modulo–totem, dello schema sovrano. Questo ha fatto Attilio Lombardo, insieme ad altri imprevedibili come lui: si è infilato di striscio nella serata giusta, si è fatto pilotare dall’istinto, è stato prima giocatore e poi strumento del gioco».
Nell’estate del 1997 è ceduto al Crystal Palace, in Inghilterra, dopo aver indossato la maglia bianconera per cinquantuno volte e aver realizzato quattro goal.