A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage
Un titolo che omaggia con intelligenza e ironia il compianto Luca Giurato, o meglio, uno dei suoi celebri strafalcioni, e qualche capra in copertina. E sì, più o meno vediamo questo, ma abbiamo l’obbligo di scavare a fondo. Dopo il primo Ep i Bisanzio ci presentano l’ottimo Spaghetti Westner, lavoro onesto, elegante e, soprattutto, scritto davvero benissimo. Nove pezzi dalle apparenti tinte leggere, che nascondono però, in maniera più o meno svogliata delicate forme di malinconia. Davvero interessante, l’opera del duo piemontese, e a noi non resta quindi che addentrarci nel progetto, intervistando il batterista Davide Vuono che, con il cantante/chitarrista Andrea Ravera Chion forma l’ispiratissimo duo.
Ciao, ragazzi, benvenuti su MDN. Un disco, molte cose da dire, ma prima le presentazioni. Chi sono i Bisanzio?
I Bisanzio sono degli amici che sono cresciuti insieme e che, a un certo punto, hanno deciso di fare musica. Andrea e Davide, ma c’è anche Nicolò, ci dà una mano dal vivo insieme a Claudio. Nutrivamo una fame di musica tale che abbiamo mollato subito le cover dei Police per fare qualcosa di nostro, anche perchè non ci venivano bene.
Un nome, un logo, un marchio che suona pesante. Cioè, Bisanzio, l’attuale Instanbul, un centro che racconta la grande storia dell’umanità. Cosa c’entra con voi, ragazzi del Canavese?
Ci piaceva l’idea di chiamarci come una città utopica, un luogo ideale, come la capitale dell’Impero romano d’oriente. Abbiamo provato con altre città esistenti, ma ci sentivamo troppo ancorati al presente.
Poi abbiamo fatto il classico…
Giuro, ultima e poi musica. Il fatto è che ogni domanda con voi sembra sorgere spontanea. Il Canavese è una sorta di regione a parte, particolare e per me parecchio affascinante. Ecco, quanto di Ivrea e della zona finisce nella vostra arte?
Parecchio. Molte canzoni che abbiamo scritto nascondono delle critiche più o meno velate a questo posto, ma anche delle dichiarazioni d’amore. Forse inconsapevolmente la provincia ci fa suonare in modo particolare e colora la musica che facciamo. Abbiamo un rapporto conflittuale e ambiguo con Ivrea e con il canavese, vogliamo tornarci e poi vogliamo andare via, per poi tornarci. Forse Pavese aveva ragione, un Paese ci vuole.
Spaghetti Westner è il primo LP. Un concentrato parecchio, e passatemi il gioco, elegante nella sua semplicità. Tante riflessioni in musica, genuine, profonde, paradossalmente arrabbiate nella propria delicatezza sonora. Lo so, citandovi dovrei parlare come cazzo mangio, ma me ne frego e voglio chiedervi a modo mio cosa è finito dentro questo lavoro…
Avevamo alcune bozze di canzoni scritte chitarra e voce e le abbiamo sviluppate velocemente su una chitarra resofonica di cui siamo entrambi genitori. Per noi funziona così, uno ha un’idea e la propone all’altro, e ci mettiamo subito a lavorare. Lo capiamo immediatamente se la canzone funziona, quando sta in piedi in mezz’ora. Se richiede troppo lavoro o artifici di produzione vuol dire che non è un pezzo forte. Queste canzoni sono nate così e raccontano la noia, la rabbia, il dolore, l’amore e la morte attraverso la maschera della leggerezza e dell’ironia. Non vogliamo prenderci troppo sul serio.
Nove canzoni piacevoli, legate e comunque differenti tra loro. In fase di scrittura, quali strade avete cercato e, per fortuna, trovato?
In quel periodo ascoltavamo tanta musica country e folk, e guardavamo tanti film western. Ci piaceva l’idea di miscelare quelle tipiche sonorità con le nostre, per prendere un po’ in giro gli Stati Uniti stereotipizzati e trasporli nel contesto provinciale Italiano. Poi ci sono state le nostre influenze: Bowie, i Radiohead, il bedroom pop, la musica anni ‘50, il punk. Abbiamo cercato di miscelare alchemicamente questi due ingredienti.
L’album diverte, appare leggero. Tuttavia un’aura malinconica e nostalgica si muove tra le note di ogni melodia proposta. Parla come cazzo mangi, direste ancora! Dai, ditemi senza fare troppe storie…
La nostalgia gioca un ruolo fondamentale. Aspettiamo che un momento presente diventi passato soltanto per poterlo trasformare in un ricordo e scriverci una canzone, aspettiamo che oggi diventi ieri per poter dire: «com’era bello ieri». Un processo fisiologico, l’effetto nostalgia. Poi comunque non siamo dei tristoni, tutt’altro. Ridiamo parecchio e scherziamo su tutto. Abbiamo anche un discreto numero di amici. Ci definirei, piuttosto, riflessivi.
Il singolo è Come Gli Insetti. Ne parliamo?
Una canzone carina, no? L’ho concepita io sul balcone di una casa non mia, a Torino. Guardavo questi palazzi tutti uguali con le luci accese e pensavo che avrei voluto vivere anche io all’interno di uno di quegli appartamenti, con una moglie, un lavoro normale, una cena da cucinare, l’odore di sigaretta dei vicini che fumano sul balcone. Cinque minuti dopo ho iniziato a sentirmi come un insetto minuscolo, inetto, schiacciato al suolo, incapace di volare e di amare in modo genuino. La musica è una citazione di Sunday Morning dei Velvet Underground.
In studio, invece?
Lo studio è casa mia. Cioè casa dei miei, nella quale abbiamo trasformato la mia mansarda in uno studio. Lo apprezziamo molto perché, a differenza dei soliti studi, che sembrano delle prigioni sotterranee, qui c’è luce ed è molto sano per la creatività. Quando non abbiamo più voglia di suonare andiamo a prendere il sole, a mangiare i ghiaccioli o a bere un caffè, così risolviamo i problemi, musicali e non. Di solito si risolve tutto.
A quali brani siete particolarmente affezionati?
Tutti. Abbiamo deciso di rinchiuderli in un album perché non avremmo saputo scegliere un singolo più forte di altri. E poi, che palle i singoli, hanno stufato, non raccontano niente. Le cose sono belle quando contestualizzate, e questo vale per tante cose nella vita. Forse nel 2025 è utopistico che le persone ascoltino tutte le nostre canzoni per intero, in ordine, perciò ci basta un minuto di ciascuna: il tempo di arrivare al ritornello.
Siete in giro da poco, ma piano piano, ne sono certo, raccoglierete le vostre soddisfazioni. Mi raccontate un po’ la vostra storia musicale?
Siamo nati nel 2022 come trio e siamo partiti a razzo. Abbiamo registrato un primo Ep che ci ha aiutato a trovare una direzione. Abbiamo partecipato a qualche contest come Emergenza, Ritmika. Poi i festival, tra cui Apolide 2024. Siamo stati a Pordenone dagli amici della nostra etichetta Bravehop Records! Poi Nicolò ha fatto come John Frusciante; adesso ci da una mano con i live. Recentemente siamo approdati a Torino, che sembra banale, ma per ragazzi come noi che arrivano da fuori non lo è. Forse è un po’ chiusa, vediamo sempre gli stessi volti alternarsi negli stessi luoghi in cui fanno suonare. Per noi è stata una vittoria, perché ci ha permesso di ampliare un po’ il nostro pubblico, che poi è il nostro fine ultimo.
Musica in Italia. Quanto siamo messi di merda, secondo voi?
Discretamente nella merda, ci sono tante cose che non funzionano. Non c’è più una monocultura. Prima, se andavi a comprare i dischi, nel negozio ci trovavi i dischi di molti generi diversi e tutti afferivano a una cultura pop. Anche mio cugino, che ascoltava Gigi D’Alessio, poteva incappare nell’ultimo di Frank Zappa. Adesso la cultura è frammentata, su Spotify escono ogni venerdì una quantità allucinante di canzoni. Paradossalmente è difficilissimo scoprire qualcosa di nuovo. In più la musica è diventata un medium di intrattenimento, più di prima, sottofondo per il video di Tik Tok. In Italia a questi problemi bisogna sommare l’assenza di una cultura musicale. Siamo figli del bel canto sanremese. Ci sono tantissimi progetti validi, tantissimi cantautori bravi, ma annegano nel mare di musica che esce. Tutti possono registrare il proprio brano, tutti possono produrre, tutti fanno tutto e, alla fine, nessuno ascolta nessuno. E dall’alto l’oligopolio della musica che fattura veramente viene trattenuto avidamente tra i soliti tre o quattro personaggi. Non si rischia. Un serpente che si morde la coda, un fenomeno sociologico che sicuramente qualcuno di più competente potrebbe analizzare più a fondo.
Progetti futuri?
Stiamo già lavorando a nuove canzoni. Ci piace, però, aprire nuove finestre verso altre sonorità. Ci diverte sperimentare, quindi chissà dove andremo a parare. La sfida sarà mantenere la nostra identità distruggendola.
Salutate i nostri lettori, piazzando come bombe le pagine per seguirvi…
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Vi risparmiamo TikTok perché tanto non lo usiamo.
Un saluto, un abbraccio, ci vediamo ai concerti (speriamo).
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