Articolo di Adriana La Trecchia Scola

 

Dal XIX la locuzione torre d’ avorio è usata per indicare un mondo o un’ atmosfera dove gli intellettuali si rinchiudono in attività slegate dagli affari pratici della vita di ogni giorno. Pertanto ha solitamente la connotazione peggiorativa di uno scollegamento volontario dal mondo, una ricerca esoterica troppo dettagliata, o anche inutile, un elitarismo accademico. Questa locuzione deriva dal libro della Bibbia del Cantico dei Cantici, però l’ avorio come simbolo di allontanamento dalla realtà e di finzione viene più probabilmente dalla cultura greco-romana. Infatti nell’ Odissea Omero distingue due tipi di sogni attraverso due porte: i sogni veri passano dalle porte di corno, i sogni fallaci dalle porte d’ avorio. Anche Virgilio inserisce quest’ immagine nell’ Eneide. Quello che resta fuori è la realtà, in quanto essa è un termine scomodo, quasi fastidioso. Nella filosofia, ma anche nelle neuroscienze, si è soliti ripetere che non possiamo conoscere il mondo ma solo le nostre rappresentazioni, che non sono del tutto affidabili. In questo modo il pensiero si svuota di significato perchè le parole sono dei simboli all’ interno di un universo di simboli e non la manifestazione di qualcosa di reale. Con l’ avvento del mondo digitale tale allontanamento dalla realtà è aumentato, per cui adesso lo scopo è l’ apoteosi dei simboli privi di significato: l’ Intelligenza Artificiale. In un certo senso il progresso tecno-scientifico è una consolazione, o il nuovo Dio al quale votarsi in modo estremo e radicale. Secondo Dostoevskij “Certo che Dio esige l’ impossibile. Dio esige solo l’ impossibile”, e l’ impossibile si manifesta quale illusione e come consapevolezza di un vuoto umano incolmabile. In opposizione a Nietzsche, Dio è risorto nella sua veste più tradizionale (con la guerra novecentesca avviata dalla Russia), o ha assunto nuove sfaccettature, alimentandosi delle pulsioni collettive (il virtuale). Il problema è che in Occidente le emissioni digitali superano quelle delle cd. industrie pesanti e potrebbero letteralmente raddoppiare l’ inquinamento. Ma la retorica “le magnifiche sorti e progressive” esclude una limitazione a favore dell’ ambiente. L’ IA non è altro che una creazione dell’ uomo: la sua capacità è fatalmente limitata perchè imitazione della parte minore della mente umana, quella divisa senza sfumature. Gli algoritmi generativi, addestrati su enormi quantità di dati provenienti dagli esseri umani, sono in grado di produrre testi, suoni e immagini in maniera stupefacente. Il più famoso è ChatGPT che ha dimostrato una capacità migliore rispetto a qualsiasi altro lavoro umano del genere, tanto che studiosi temono che il loro lavoro verrà svolto dalle macchine. Grandi artisti hanno espresso avversione perchè considerano l’ arte realizzata tramite IA “un insulto alla vita stessa”. Il principale esponente dell’ animazione giapponese, Hayao Miyazaki: “Chiunque abbia creato questa roba non ha idea di cosa sia il dolore. Sono estremamente disgustato. Se volete davvero fare questa roba raccapricciante, fatelo pure, ma non intendo incorporare questa tecnologia nel mio lavoro. Credo fermamente che sia un insulto alla vita stessa […]. Sento che ci stiamo avvicinando alla fine dei tempi, noi esseri umani stiamo perdendo la fede in noi stessi”. Eppure (parafrasando Vasco) l’ umanità è ancora qui, e l’ IA è nulla senza l’ umano. Il lavoro dell’ IA è svolto solo per soddisfare gli scopi dell’ uomo, che sono egemonici. L’ idea di una tecnologia universale e neutrale è illusoria, perchè ognuno cercherà di usare il progresso per affermarsi. Secondo il sociologo francese Bruno Latour “technology is society made durable”: la tecnologia è una specie di “calco” durevole della società, porta inscritte su di sè, nei suoi aspetti tecnici, le norme e i valori della società da cui è emersa. La tecnologia non determina la società, non ha qualità intrinseche che la rendono buona o cattiva, ma non è neanche neutrale. Essa è incastrata in una serie di relazioni che ne modellano e ne stabiliscono l’ evoluzione. Tuttavia non si può credere che la discriminante sia il modo in cui si usa la tecnologia, perchè un uso “giusto” potrebbe essere impossibile se non cambia il sistema di sfruttamento dei dati su cui si basa il capitalismo digitale, o se non aumenta la competenza digitale dei cittadini, o se permangono le asimmetrie di potere tra grandi aziende tecnologiche e cittadini. Neppure si può affermare che l’ IA abbia superato l’ umano nella sua capacità più essenziale: il pensiero. La persona non è solo una calcolatrice, ma una unità dell’ esistere. Quindi il pensiero non è nè un flusso di concetti nè una sequenza di operazioni, ma il punto in cui la realtà si manifesta. L’ algoritmo è imbattibile nell’ assemblare informazioni, ma questi simboli digitali non sono il mondo reale.

 

Ti sento è un brano musicale dei Matia Bazar, pubblicato come singolo dalla Ariston nel 1985, estratto dell’ album Melanchólia. La musica fu composta da Carlo Marrale (ritornello) e Sergio Cossu (strofa e ponte) mentre il testo è di Aldo Stellita. Fu un grande successo internazionale con versioni in spagnolo ed inglese, intitolate rispettivamente Ti siento e I Feel You. Il brano è stato interpretato in italiano dai Matia Bazar con tutte le soliste che si sono succedute nel tempo come voci del gruppo. La versione insuperabile è quella di Antonella Ruggiero, per la sua musicalità e per l’ intensità vocale. Infatti tale versione rappresenta il punto più alto dell’ Europop kitsch anni ’80: synth-pop e una voce potente e operistica. Non per caso questo capolavoro del 1985 rientra tra i riferimenti dell’ ultimo disco dell’ artista americana Caroline Polachek (Desire, I Want to Turn into You). La Polachek adora le dive e la performance di Antonella Ruggiero è diventata per lei un punto di riferimento. “Dà tutto, e intanto il brano sale sempre più di tonalità”, spiega. “Cominci a pensare che gli occhi le stiano per schizzare fuori dalle orbite: è una performance incredibilmente intensa. È come prendere la scossa. Quella canzone è diventata una specie di faro che mi indicava dove andare e cosa provare a fare”. Del resto l’ artista americana, avendo studiato l’ opera e il bel canto (il rapporto con l’ Italia torna spesso nella sua arte), ha una attenzione fondamentale nell’ uso della voce come strumento. La sua scrittura (anche dell’ ultimo disco) si distanzia dal significato letterale che richiede il pop, preferendo rimanere ambigua, misteriosa, come caratteristica intrinseca del desiderio. L’ arte, nella musica come altrove, è fuoriuscire dal letterale per entrare nei territori liberi in cui è accettato l’ errore, l’ imbarazzo, il gioco. Nella mediocrità della musica pop algoritmica essere fan di Ti sento dei Matia Bazar di Antonella Ruggiero significa “reagire all’ effimero”.
megliodiniente

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