Articolo di Emilio Aurilia
Come avvenuto per i Gentle Giant, così per codesta creatura del bizzarro Peter Hammill, autore di quasi tutto il repertorio, il pubblico italiano ha mostrato di gradirla e apprezzarla prima di quello anglosassone.
I Van Der Graaf vanno ascritti certamente al genere progressive, ma in un àmbito più duro, cupo, involuto, meditativo, poco immediato anche grazie alla predisposizione altrettanto cupa del leader verso il mondo esterno.
La line up che ha riscosso il maggior successo vede Hammill (voce, piano e chitarra), Hugh Banton (tastiere, basso), Dave Jackson (sax), Nick Potter (basso) e Guy Evans (batteria) e la trilogia “The Least We Can Do Is Wave To Each Other” (1969), “H to He Who Am The Only One” (1970) e soprattutto “Pawn Hearts” (1971) che vanta addirittura un brano composto da George Martin (“Theme One”) rappresentano senza dubbio il meglio della loro produzione, basata su brani lunghi impostati sul melànge di sax e tastiere corredato da un cantato solenne spesso recitativo e talora lugubre.
La parallela intensa attività solista del leader che continua ancora e che vede la partecipazione in studio dei suoi amici, mette in crisi la sua creatura che subirà molti sbandamenti e defezioni senza più conoscere il successo precedentemente acquisito.
Ancora oggi pare che il gruppo esista benché con meno continuità anche per lo scemato interesse per ciò che furono i fasti del prog inglese degli anni settanta.