Nato a Boara Pisani (Padova) il primo novembre 1957, comincia a mostrare le sue doti al termine della Scuola Media (Vigliano Biellese) quando, trasferitosi a Borgo San Martino in quel di Casale Monferrato, gioca prima nel San Carlo e in seguito nella Junior. Molti osservatori restano colpiti dalla sua bravura, ed è la Juventus a ingaggiarlo, accogliendolo tra gli Allievi di Viola, i Beretti di Grosso per trovare degno inserimento nella Primavera.
«All’epoca, guadagnavo 25.000 lire al mese, ma dovevo regolarmente restituire 5.000 lire per le multe che la società mi dava, per le marachelle che combinavo con Marangon e Marocchino. Niente di grave, ovviamente; magari, marinavamo la scuola e facevamo tardi, perché attratti da qualche bella ragazza».
Il tempo passa e giunge il momento di una diversa maturazione, passando attraverso esperienze più complete; insieme a Paolo Rossi, raggiunge Vicenza per farsi le ossa che, proprio in quell’anno, riprende il suo posto fra le grandi della Serie A. Rientra a Torino, integrato nell’organico della squadra titolare, nell’estate del 1977.
Giocatore di buon talento, in possesso di stile e di ottima tecnica individuale, sa andare a bersaglio con tiri di rara precisione. Buonissimo centrocampista, con qualche limite di personalità, il buon Vinicio lascia la firma sullo straordinario scudetto 1980-81, nella decisiva partita della penultima giornata (a Napoli); subentrato a Marocchino, Verza effettua al 64’ il tiro che, deviato dal napoletano Guidetti, finisce alle spalle di Giaguaro Castellini, regalando alla Juventus due punti che ne valgono sei.
Nella Juventus, chiuso dai vari Tardelli, Benetti e Furino, si ferma per tre stagioni: totalizza sessanta presenze (quarantuno in campionato, undici in Coppa Italia e otto nelle Coppe europee), realizzando undici goal (sette, due e due nell’ordine) e contribuendo agli scudetti 1978 e 1981 e alla Coppa Italia 1979.
«Meraviglioso è stato l’esordio al Comunale, ero imbarazzato per quello che mi attendeva, temevo di venir mena alle aspettative dei tifosi della curva Filadelfia. Dopo l’infortunio di Bologna, temevo di non farcela più a guarire e giocare, avevo esempi di tanti giocatori che avevano dovuto scrivere la parola fine alla carriera e mi disperavo. Non mi preoccupavo tanto per il posto in prima squadra, quanto per la carriera nella quale volevo dare tanto, tutto me stesso per la mia Juventus».
La Juventus come maestra di vita: «Ho imparato tante cose e tante ne imparerò; quando gioco voglio esprimere sempre nuovi aspetti della mia personalità guardandomi con occhio critico e, devo ammettere, che non sempre tutto è andato liscio come l’olio, ma ho anche avuto la soddisfazione di essermi sentito determinante in alcune azioni da goal. Se sono stato in grado di far perforare la rete avversaria, ebbene, quella segnatura mi ha dato lo stesso immenso piacere che avrei provato se la palla l’avessi calciata io stesso alle spalle di Castellini o di Terraneo».
Il ruolo ricoperto: «Sono un giocatore eclettico e la prova l’ho data tra le file del Lanerossi ricoprendo quel ruolo che a molti piace indicare con la parola jolly. A me, personalmente, importa una sola cosa: giocare, ho desiderio, voglia e necessità di giocare perché intendo dissipare ogni dubbio sul mio rendimento; dalla panchina o dalla tribuna, posso solo dar prova di maturità accettando disciplinatamente gli ordini e le direttive del Mister».
La maglia bianconera addosso: «La Juventus mi esalta, nell’esprimermi in campo; la mia preoccupazione maggiore è quella di essere all’altezza della squadra in cui gioco. Non mi faccio illusioni, sono un professionista serio e preparato, ma prima di ogni cosa devo ricordarmi che, nella Juventus, non vi sono solo tradizioni da rinnovare nel futuro ma anche un certo stile da perpetuare. Ciò che è sufficiente in una qualsiasi società di Serie A è assolutamente scarso, se si milita in bianconero».
Nell’estate del 1981 è ceduto al Cesena, poi si trasferisce al Milan: «Andai al Cesena, perché voluto da Gibì Fabbri, che mi faceva giocare con il numero cinque, definendomi il nuovo Falçao; così, mi ritrovavo a dover marcare gente come Tardelli e Bagni. Che fatica! A metà campionato, subentrò Lucchi e passai velocemente dalla polvere all’altare. All’ultima giornata di quel torneo incontriamo il Milan, a San Siro; sono espulso per aver picchiato Novellino e mi becco quattro giornate di squalifica. Ma, ironia della sorte, l’anno successivo sono acquistato proprio dai rossoneri. Certo, non sono mai stato un bell’esempio per i giovani!»
Dopo un triennio in rossonero approda per la stagione 1985-86 al Verona, dove lo attende il compito di far dimenticare Fanna, anche lui ex bianconero. Un ultimo campionato con il Como e poi il ritiro, a soli trentuno anni. «In quel calcio non mi riconoscevo e non mi divertivo più; non era una questione di stress, con tutti i soldi che danno ai calciatori, è comico addurre a certe giustificazioni. Ma a Como, dopo una partita proprio con la Juventus, mi ritrovai immeritatamente fuori squadra, nonostante dei trascorsi di buon livello; la cosa mi diede parecchio fastidio, come il prolificare degli avversari che scendevano in campo con il solo scopo di picchiare. Dissi basta una volta per tutte e senza rammarico».
Verza è due volte internazionale con l’Under 23, con la rappresentativa giovanile gioca cinque partite e realizza un goal.
MASSIMO BURZIO, “HURRÀ JUVENTUS” NOVEMBRE 1987:
Piede magico, tiro bruciante, invenzioni a gogò. E ancora: bel dribbling, incedere elegante, ottima struttura fisica, grinta e voglia di lottare. E anche buona classe, intelligenza e fantasia. Eppure.
Eppure questa non è la scheda di un brasiliano che ha iniziato a toccare il pallone sulle bianche spiagge di Rio de Janeiro per poi approdare al mitico Maracana. È la descrizione delle caratteristiche calcistiche di Vinicio Verza che non è nato in Brasile ma in provincia di Padova, per l’esattezza a Boara Pisani il primo novembre del 1957.
Con il che si dimostra che da noi nascono buoni, anzi ottimi giocatori. Gente che non avrà il cognome che finisca in “ha” o in “ho” o ha due nomi propri come “family name”. E come se non bastasse Verza (che fosse di laggiù si sarebbe chiamato Verzinho) è decisamente un giocatore di caratteristiche sudamericane. Lo era un tempo e lo è anche oggi, anche se la sorte l’ha portato a militare tra le riserve del Verona operaio di Osvaldo Bagnoli. Insomma Verza è un calciatore bravo e divertente. Ha raccolto molto meno di quanto doveva nella Juve, ma ha avuto la gioia di vincere in maglia bianconera ben due scudetti (1978 e 1981) e una Coppa Italia (1979).
Cresciuto nelle giovanili della squadra juventina, verso la prima metà degli anni Settanta viene mandato a Vicenza a fare esperienza. Con lui gioca un certo Paolo Rossi, e i due (seppure in ruoli diversi) formano un tandem di tutto rispetto. Attaccante veloce e imprevedibile l’uno, centrocampista fantasioso l’altro. Nell’estate del 1977 il ventenne Verza si vede recapitare la raccomandata di convocazione della Juve. Purtroppo per Verza i titolari sono Tardelli, Benetti e Furino. Un tris di campioni inamovibili e insostituibili a cui il bravo Vinicio fa da scudiero, cercando di trovare spazio e occasioni.
Ma alla Juve nessuno viene chiamato per fare tappezzeria. Così, come detto, per Verza gli scudetti sono due e la Coppa Italia del 1979 è il giusto coronamento di tre stagioni vissute magicamente, seppure con un onesto ruolo di comprimario.
Un ruolo, il suo, che nella storia juventina è intermedio. Non uno dei big ma neppure uno dei tanti, per un centrocampista dalle spiccate attitudini offensive e dalle tante qualità. Qualità che in una Juve attenta come quella costruita in quegli anni dalla sagacia di Trapattoni, non ebbero grande spazio, anche se l’allenatore soleva spesso dire che: «Vinicio è mezzo brasiliano, tant’è la sua fantasia e inventiva in campo».
Poi (tutte le storie belle finiscono) dopo la Juve, il Cesena. Una buona e sana provincia che nel 1981 permette a Verza un rilancio, propiziato anche da una maglia di titolare inamovibile. Quindi il Verona con il compito di far dimenticare un altro ex juventino; Pierino Fanna. Tra i due non c’è parentela calcistica: Fanna è, infatti, un’ala che ama svariare per tutto il fronte offensivo, Vinicio è centrocampista che più che ricevere palla e subito puntare a rete, deve trovare un compagno da smarcare in prima linea. Insomma qualche buon match ma nulla più e quindi una panchina accettata da Verza con disciplina e senso professionale.
Merito forse della maturità acquisita con gli anni e degli insegnamenti appresi in quella scuola di vita e di sport che è la Juventus. Già, la Juve. Una squadra, un periodo di vita a cui Verza ripensa spesso. Una volta mi disse: «Ti ricordi che Juve, quella Juve?»
Si riferiva alla squadra dei suoi tempi e aveva ragione. Fu una grande Juventus, fu un team di assoluto valore, anche perché ogni tanto entrava in campo un brasiliano nato in Veneto: Vinicio Verza.

FONTE: IL PALLONE RACCONTA BLOGSPOT

http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/11/vinicio-verza.html?m=1

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