di Emilio Aurilia

A metà degli anni settanta nella sempre attiva Swinging London cominciava a muoversi, destando l’attenzione di pubblico e critica, il gruppo dei Japan (vissuto fino al 1982) con una musica un po’ glamour incentrata prevalentemente sulla new wave e che occhieggiava volentieri agli stilemi compositivi di David Bowie: voce gutturale impostata su di un lavoro di tastiere e sintetizzatori utilizzati prevalentemente in chiave ritmica e sortite strumentali spesso affidate alla chitarra e un frontman alla maniera del Duca Bianco agghindato, da sembrarne un clone con abbigliamento dandy, la chioma biondissima ad incorniciare un volto volutamente emaciato: era costui David Alan Batt, detto David Sylvian.
Brani a campione “Adolescent sex”, “Swing”, “Gentlemen take polaroids”, riflettono quanto sopra affermato.
La conclusione della loro avventura ci regalava l’episodio dal vivo “Oil on canvas”.
Sciolto il gruppo l’attività solista di Sylvian muta quasi radicalmente rotta; poco spazio alle formule new wave, ma brani più lunghi, meditativi ed elaborati. Il secondo disco del doppio “Gone To Earth” (1986), interamente strumentale, introduce quello che sarà da allora il suo stile compositivo: ricerca di siderali atmosfere sospese su di un tappeto minimalista, il suono che si trasforma in dispersi impulsi sonori, gli varrà l’appropriata qualifica di musicista new age alla maniera di Brian Eno e soprattutto degli strumentisti dell’etichetta Windham Hill.
Negli anni la caratteristica della sua musica, da solo o da contitolare come avviene con “Plight & Premonition” (1988) insieme a Holger Czukay bassista dei Can, si fa ancora più rarefatta dilatandosi in episodi lunghi, atonali, in alcuni casi ad occupare una intera facciata o un intero disco per un risultato eccellente nell’atmosfera erratica fantasiosamente creata e portata avanti con successo nella futura produzione discografica tuttora perdurante.

 

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