Categories: Rockology

THE BEATLES (III)

 

 

Articolo di Emilio Aurilia

 

 

Il policromo Sgt. Pepper ha significato per i Beatles l’inizio della seconda e ultima fase, quella denominata “The studio years” ossia la decisione di ritirarsi dai concerti per concentrarsi a generare musica soltanto nello studio di registrazione. I Beatles non hanno più motivo di presentarsi in pubblico dinanzi a scatenate teenagers che con i loro schiamazzi di approvazione rendevano la performance del tutto inascoltabile; vogliono ora essere giudicati come musicisti per ciò che propongono.
Gli ultimi tre anni sono infatti costellati di momenti qualitativamente molto elevati ai vari livelli. La calma di affrontare le registrazioni contribuirà a formare prodotti eccellenti e non solo dalla penna di John e Paul, ma anche da quella di George capace di sfornare brani di altissimo livello come “While my guitar gently weeps” e specialmente “Something” .
Dopo un episodio in cui la psichedelia iniziata con l’album precedente viene portata alla massima concentrazione con l’EP “Magical Mystery Tour” colonna sonora dell’omonimo film che pure annovera due canzoni eccellenti: la superba ballata di Paul “The Fool On The Hill” e la pazza e beffarda “I’m The Walrus” di John, il 22 novembre 1968 pronto per il mercato natalizio viene pubblicato “The Beatles”, conosciuto anche col nome di “doppio bianco” in quanto trattasi del primo album doppio della sua storia per un totale di ben trenta canzoni. Bianco perché, in totale contrasto con le precedenti copertine multicolori, questa del presente è totalmente bianca compreso il titolo appena in rilievo.
Più di un critico ha osservato che questo disco sia il primo prodotto non comune, bensì formato da brani appartenenti soltanto ad ogni singolo componente che utilizzerà gli altri colleghi come semplici session men o si arrangerà da solo. Non è infatti una impressione azzardata poiché è molto probabile che ogni membro (tranne forse l’ineffabile Ringo qui autore solitario della prima canzone da lui composta “Don’t pass me by”) si senta ormai autonomamente maturo e consapevole del proprio talento, pronto per confezionare brani come la citata di Harrison, la sognante poetica “Blackbird” di Paul, la convinta “Revolution” di John, oltre ad altre meno note, ma non per questo meno piacevoli o di livello inferiore. Lennon fra le cose più riuscite propone inoltre l’intensa “Sexy Sadie”, polemicamente dedicata al Maharishi, la tirata “Yer Blues”, impostato su di un cliché compositivo che caratterizzerà alcuni successivi suoi brani dei primi album solisti. Per contrapposto registrerà in perfetta solitudine (prima e unica volta nella storia della band contrariamente al suo collega più volte one man band) accompagnandosi alla chitarra acustica “Julia” uno struggente delicato omaggio a sua mamma morta quando era bambino.
Paul, sempre eclettico, si butta sul vaudeville come aveva precedentemente fatto con “Your mother should know”, proponendo “Martha my dear” e “Honey pie”, passando addirittura all’heavy rock “Helter Skelter” e alla delicata ballata “Mother Nature’s son”.
Stupisce la dolcissima “Goodnight” in chiusura, affidata alla voce malinconica di Ringo, di cui tutti avevano ipotizzato McCartney come autore, prima di scoprire essere di Lennon come dedica a suo figlio Julian seienne.
Un prodotto il “doppio bianco” pieno di musica piacevole e varia, ma frammentario nella sua sovrabbondanza e non a caso George Martin ne avrebbe desiderato realizzare un disco singolo scartando episodi meno efficaci il cui connotato di riempitivo è fin troppo evidente.

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