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3 punti a partita – A.A.A. LEADER CERCASI, DISPERATAMENTE

 

 

Articolo di Carlo Amedeo

 

Più guardo le partite di quest’anno più mi accorgo che manca qualcosa. Non è un discorso nostalgico, tipo “No al calcio moderno” o roba del genere. Credo sia più un discorso evolutivo, un ragionare da sociologo. Ecco, sociologia, la scienza giusta in questi casi, quando non si sa bene come stiano le cose, quando le si osserva e commenta attraverso le sensazioni. Niente statistiche, quindi. Sì che anche queste lasciano il tempo che trovano, come la storia del pollo. La sapete, vero? Se andiamo al ristorante e mangio due polli, statisticamente ne abbiamo mangiato uno a testa anche se Voi avete preso gli spaghetti allo scoglio. Una scienza molto rivedibile, quindi. Torniamo alla sociologia, quanto meno si sa già dall’inizio che è formata da chiacchiere e teorie. Si presenta bene. Comunque, dicevo, credo che in questo momento lo sport, italiano soprattutto, sia lo specchio di come si stia sviluppando la nostra società. Ricordo un calcio in cui ogni squadra aveva un capitano. Ultimamente le chiamiamo “bandiere” e poi, amaramente, aggiungiamo che non ce ne sono più. Cos’era, però, quella bandiera? Quel capitano? Bè, era prima di tutto un uomo. Poi, caratteristica fondamentale, aveva un enorme carisma. Sapeva farsi rispettare, si diceva. Spesso, però, ci riusciva solo con uno sguardo, parlando poco, accompagnando i fatti a poche parole e non il contrario, come spesso accade ora. Tra gli opinionisti bravi, quelli dei salotti pagati con il canone, si iniziava a parlare di “uomo spogliatoio”. Non doveva essere per forza il miglior giocatore della squadra. Spesso, anzi, era un operaio del centrocampo o un baluardo della difesa, uno di quelli che nel tabellino dell’arbitro finiva più per i cartellini che per le marcature. Eppure, quando mancava lui, era come mancasse un faro e la squadra si dimenava in campo senza una direzione. C’erano poi le squadre dei grandi numeri 10 e quelli, oltre a essere uomini spogliatoio e capitani, erano anche fuoriclasse, i giocatori che, nella loro squadra, facevano la differenza. Per i difensori mi vengono in mente Scirea, Zanetti, Baresi e Maldini, per gli operai del centrocampo Di Bartolomei e De Rossi, per i grandi numeri 10 c’è l’imbarazzo della scelta, da Platini a Baggio, da Totti a Del Piero, da Maradona a Matthaus e potrei continuare all’infinito. E non li sentivi spesso ai microfoni, raramente erano ospitati nei salotti buoni, eppure, in campo, erano il faro, lo sguardo da cercare nelle difficoltà o nel dubbio, la voce da ascoltare in ogni situazione. E nello spogliatoio, per quanto se ne possa sapere, dei veri e propri sceriffi.

Eravamo arrivati, negli ultimi anni, a vedere persino in campo un giocatore che, per quanto dalla carriera brillante, era ormai agli sgoccioli. Il Milan, siamo sinceri, aveva ripreso Ibrahimovic soprattutto per un discorso di personalità, carisma, carattere. Sì, ok, era anche forte, certo….lo dico solo perché, se mai leggesse, mi verrebbe a cercare. Ma che succede? C’è davvero bisogno di tutto ciò?

E qui arriviamo all’inizio dell’articolo. Manca qualcosa e, secondo me, è quel punto di riferimento intorno al quale tutti si mettono in fila a spingere nella stessa direzione. Personaggi talvolta scomodi, a Roma se lo ricordano tutti il 2004 con la squadra che si salva dalla serie B a due giornate dalla fine. Personaggi che spesso lo spogliatoio lo spaccano in due, come potrebbe aver fatto Bonucci alla Juve. Personaggi che poi, magari, se ne vanno sbattendo la porta o prendendosi la porta sul naso, vedi Del Piero e Maldini. Ad ogni modo, mettendola come vogliamo, personaggi che identificano una squadra, un gruppo, un risultato, un periodo. La Juve BBC, quella di Barzagli, Bonucci e Chiellini. La Roma di Totti e Batistuta, il Milan degli olandesi, l’Inter dei tedeschi, per fare esempi veloci nella memoria. Ecco, adesso chi c’è? Dove sono questi personaggi?

Tutti si qualificano come “professionisti”, neanche fossero idraulici. Campioni quando vincono, senza responsabilità se perdono. Tutti buoni ad abbaiare in campo ma senza confrontarsi. E mi manca quel potermi identificare in qualcuno. Credo manchi anche ai giovani che non sanno come è stato il passato e che, quindi, non si appassionano. Prendi la Juventus. Chi è l’uomo spogliatoio? Chi è quello che “vorrei essere come lui”? Rabiot?

Credo che in questo scenario, il leader resti fuori dal campo, più o meno comodamente seduto in panchina, in giacca o tuta. Possibilmente con 60 anni sulle spalle. Me la spiego solo così questa infinita importanza dell’allenatore, che ormai tutti chiamano “mister”. Un uomo che deve essere prima psicologo, poi un secondo padre, poi un professore severo. Questo quando è agli allenamenti. Poi una istrionica guida durante la partita. Infine, in conferenza stampa, una specie di guru, fonte di sapienza per i discepoli incollati alla Tv, fonte di ispirazione per tutti i giornalisti che devono quotidianamente scrivere qualcosa. Figure osannate neanche fossero loro a scendere in campo e a depositare la palla in rete. Bah. Poi pensi che qualche mese fa se n’è andato Mazzone, uno che non ha mai vinto nulla, eppure che manca a tutti. Uno che non amava erigersi a grande saggio della scienza calcio, anzi, un uomo ben presente a sé stesso, talvolta terra terra ma efficace. Mi viene in mente il Trap e ricordo le sue interviste che erano più famose per Mai dire Gol che per il messaggio delle sue parole. E poi vedo Allegri, invece, che ricorda al mondo come il calcio sia una cosa semplice, basta passare la palla a quello che ha la maglia uguale alla tua, e improvvisamente si aprono dibattiti folli, tenzoni tra chi sostiene che sia un illuminato del pallone e chi ritiene che abbia mancato di rispetto verso i giocatori. Bah. Forse è la dimensione del fenomeno “calcio” a lasciarmi disincantato. Un fenomeno, appunto. E ricordo quando era un gioco e uno sport. Ben altra cosa.

Bene, lunga riflessione, vero, però ci voleva. Sapete perché? Perché poi vedo che Tamberi vince l’oro nel salto in alto e se ne parla mezza giornata. La Palmisano medaglia nella marcia, la staffetta 4×100 maschile, i ragazzi del nuoto. Tutta gente che non è considerata professionista ma che si ammazza di allenamento, lavora da matti e vince. Leader di se stessi. Ma nessuno li prende come esempi. Ci sono due modi di raccontare lo sport. Uno è quello classico, quello delle grandi vittorie, delle imprese da cineteca, delle gesta eroiche in campo. L’altro modo, molto più noioso, è quello di raccontare le migliaia di volte che un atleta prova un gesto, un movimento, un’azione. Migliaia di volte, sempre uguale, per arrivare alla perfezione, per arrivare a vincere, per giungere pronto a quel momento, quello lì, quello che ti fa passare dal modo di raccontare noioso a quello esaltante dell’eroe con la corona d’alloro. Ecco, la società moderna ha visto sempre e solo gli allori e adesso scambia una banalità per un esercizio filosofico. Peccato.

Bè, che c’è? Si chiama “spunto di riflessione”. Potete non essere d’accordo, naturalmente. Sarebbe, anzi, molto gradito. A essere tutti d’accordo succede che si diventa indifferenti a tutto, non ci si confronta e si rimane ciò che si è. Quindi, cortesemente, dissentite. Grazie.

E buono sport a tutti

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