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Diario di un artista 106

Di MsFMaria ~ Keanu

 

La volta scorsa ho concluso con un famoso estratto da Leaves of Grass di Walt Whitman e sinceramente consiglio di leggere tutta l’opera e non fermarsi solo a una citazione cinematografica: lo “zio Walt” (non Disney, stavolta) si studia come una figura plurisfaccettata non limitata al suo orientamento sessuale, ma anche al suo pensiero, alla sua concezione politica e non solo. In un’epoca in cui si rischiava anche a respirare, sebbene si stesse avanzando più di adesso, si espose molto. Quindi, Cole Notes (che sarebbe il nostro Bignami) in mano e apriamo la nostra mente.

Ho lasciato talmente tante porte aperte a diversi argomenti da trattare, durante i miei precedenti sproloqui, che si pensa che abbia pututo perdere il filo di Arianna: quando si scrive o si parla, avviene di getto, “on the spur of the moment” per dirla all’inglese. Tuttavia, si segue un proprio ruolino mentale e ci si ritrova con questa lista di punti su un blocco note, per esempio:

  • Riapertura dei teatri
  • Riapertura e protezionismo
  • Attori e preparazione
  • Primavera di Praga
  • Organizzazione di spettacoli e non solo.
  • Doppia natura di Stanislavskij, accenni di Grotowski, pillole di Brecht.
  • Generazione X
  • Men in Black, The Man from Taured, etc.

Non sembra, ma anche io ho un ordine mentale – o così diceva la mia analista, ma dato che era una dipendente pubblica era anche pagata per farmi stare bene e per aiutarmi a superare dei traumi. A proposito del termine trauma, qualche tempo fa’, mi trovai in un’interessante conversazione con il mio insegnante di sceneggiatura (più mio amico adesso che ai tempi dell’università) in cui mi si spiegava la sua duplice etimologia: Greco vs Tedesco. Trauma, ôñáῦìá (-áôïò) , in greco significa “ferita” mentre in tedesco Traum  “sogno” (se aggiungiamo l’inglese come lingua germanica con dream, mi emergono due o tre collegamenti): sogno e ferita sono parole unite da relazioni antiche e sono alla base dello studio attoriale e non solo. A questo proposito, consiglio una lettura interessante: “Fai bei sogni“di Massimo Gramellini (Longanesi, 2012). Solo leggerne un estratto su Internet (appunto alla sezione in cui si parla di “trauma”) apre molti spunti di conversazione e di studio in materia di Recitazione,Drammaturgia e molto di più, poiché ogni testo ha tutto un suo universo di sottotesti e sottintesi che orbitano intorno su diversi livelli.

Quando si inizia un percorso attoriale o lo studio di un personaggio (training), si intraprende una fase di introspezione intesa come sguardo dentro se stessi: molti esercizi scavano alla ricerca di triggers ovvero sia emozioni, sentimenti, traumi repressi in/consciamente poiché tendiamo a fuggire al dolore, ad “addormentarlo”, a evitarlo. Tuttavia, riemerge nei momenti meno opportuni al fine di essere affrontato: un po’ la base della vita fondata sulla dicotomia di eros-thanatos (giusto per non farci mancare Freud con il suo saggio Jenseits des Lustprinzips), mordi e fuggi, fly-or-fight, etc. Si riduce tutto agli istinti primordiali di vivere o morire, di sopravvivenza, quelli che in senso molto lato ci portano all’homo homini lupus di Hobbes. Di nuovo, lunga digressione per giustificare in un’ipotetico teorema matematico, appunto, l’ipotesi e giungere poi alla tesi. Il punto chiave è che si parla tanto di esperienza, sogni, traumi e dolori come se fossero delle entità separate, ma risultano tutte correlate dalla stessa logica. Seguitemi un attimo.

Al primo anno di Accademia teatrale, si studiano le basi e ognuno segue un proprio filo di pensiero teorico: quanto vi sto per dire potrebbe avere un retrogusto di Scientology, ma in realtà, cito (all’essenza di acqua di rose) un metodo di studio della propria voce detto Linklater (per chi volesse prendermi a colpi di tomi, il volume dovrebbe chiamarsi La voce naturale).

Si parte dalla nascita di un piccolo fagottino di essere umano che, nel momento in cui si trova a essere espulso dal grembo materno (e non l’ha mica chiesto, perché, anzi, viveva da pascià e aveva vitto e alloggio gratis e a volontà a ogni ora), prova il primo dolore e urla (primo trauma: dove mi trovo? Che cos’è quest’aria? ⇒ Piango per comunicare) e appena si taglia il cordone ombelicale, secondo dolore effettivo dato dalla parte offesa, (secondo trauma: piange come richiesta di aiuto e per comunicare il dolore effettivo): già alla nascita si prova dolore e troviamo tuttavia la forza per “urlare” aiuto a frequenze e volumi altissimi. Dato che il solo mezzo che ha per “comunicare” con chi lo circonda (sempre il fagottino di cui sopra) è la voce e comprende che gridando ci si accorge della sua presenza e dei suoi bisogni, perfeziona questa nuova “tecnica” negli anni finché non intervengono regole comportamentali imposte dalle figure genitoriali autoritarie e quel potentissimo monosillabo che significa diniego ovvero “no”. In un attimo si crea la base su cui si fondano relazioni tra personaggi sul palco: conflitto e trauma/obiettivo da superare/perseguire.

Infatti, in scena i personaggi sopravvivono grazie allo stimolo primordiale del conflitto e non si trovano mai due obiettivi uguali in scena: ognuno ha il proprio creando un ciclo di azione che rende possibile la vita dell’opera stessa. Questo accade anche con spettacoli comici, anzi più presente in un contesto così opposto e si scopre anche che pianto e risata sono interdipendenti con un punto di incontro e per questo rappresentano le “maschere” del teatro. Un po’ come la doppia “natura” dell’attore: prima natura ovvero la persona dell’attore e seconda natura ovvero una tabula rasa su cui si costruisce il personaggio e che prevede un lavoro dell’attore su se stesso (come da titolo del manuale-bibbia degli attori Stanislavskij-Strasberg), giusto per non identificarsi sl di fuori dal palco e non aggiungere ulteriori traumi scenici a quelli propri. A questo proposito, si parla sempre della “maledizione del Jocker” e di come attori abbiano eseguito degli studi e siano entrati (letteralmente) così tanto in codesto personaggio da lasciare che si impossessasse di loro e di identificarsi con esso: questo non dovrebbe mai accadere per quanto noi prestiamo il nostro corpo e la nostra mente ai personaggi, a queste entità vive e vere. Per questo motivo, necessita scindere la prima e la seconda natura. Questo è il contrario di ciò che avviene quando persone che conoscono noi sotto ogni aspetto assistono a uno spettacolo: riescono solo a vedere te che interpreti un ruolo piuttosto che te che diventi un personaggio.

A proposito, se vi state chiedendo chiedendo se agli attori diano dei buoni sconto per una seduta di analisi, la risposta è “qualche volta”, ma grazie al nostro lavoro impariamo a convivere con il nostro “lato oscuro della forza”. So che avete cantato quel tema di Star Wars e avete immaginato un uomo in nero con il respiro pesante, mentre lo leggevate.

Quindi, alla luce di quest’astrusa spiegazione molto blanda si può sostenere che gli attori, gli artisti sono degli studiosi della psiche umana o per lo meno della propria. Come diceva uno dei Sette Savi, si sospetta Talete… sì, proprio quello del teorema… giusto per farsi odiare di più dagli studenti. Conoscendo, dunque, la propria psiche, si riesce a seguire un filo logico, una scaletta mentale o ci si perde nei meandri della propria mente: l’importare è trovare sempre una via d’uscita. Un po’ come quei segnali sulle porte dei teatri, le “uscite d’emergenza” che vorresti aprire quando uno spettacolo ti fa venire il latte alle ginocchia, ma non puoi alzarti dato che ti trovi nel posto centrale di una fila interna e soffri in silenzio, contando i secondi. Oppure il tempo ti scorre via in un secondo perché ciò che prende vita sul palco ti trascina, ti coinvolge e ti porta in un altro mondo, in un’altra dimensione, lasciandoti sognare, e ti rendi conto di avere investito bene quei soldi del biglietto, sentendo rinascere qualcosa in te: in fondo gli spettacoli – che possano risultare gradevoli o meno – sono portatori sani di arte come chi li interpreta. Non per nulla, nell’antica Grecia, gli attori si esoneravano dal servizio militare in quanto rendevano un servizio alla società a un livello metafisico, profondo, spirituale: erano come dei sacerdoti che aiutavano a purificare l’anima e a connettersi con il divino.

Andare a teatro è come un viaggio, ma mentale, un toccasana per l’anima e non solo. Proprio in questi giorni si parla tanto di riapertura di teatri, cinema, spettacoli, vacanze, di evadere e non pensare. Si parla di intrattenimento e di tutte le maestranze che lo rendono possibile e io ringrazio per il giorno in cui potrò calpestare di nuovo fisicamente quelle assi di legno, pestare un chiodo mentre cade un copione a terra e ricordarsi di sbatterlo tre volte come da tradizionale superstizione… sì, perché teatro è anche questo, una cultura “alternativa”, rituali e molto di più, inclusa tutta l’organizzazione di uno spettacolo. Tuttavia, vorrei ricordare, solo per un attimo, che il teatro nasce con una funzione sociale e spirituale… e forse la prossima volta, giusto perché l’ho accennato prima, vi racconterò come accadeva questo in passato e anche adesso!

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