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GENESIS

 

 

Di Emilio Aurilia

 

È molto difficile, se non impossibile, che gruppi longevi distinti per decine di anni sul panorama musicale, si siano espressi sempre con un rendimento costante di alto livello.

È anche il caso degli inglesi Genesis, nati nel 1967 dalla fusione di due gruppi locali: gli Anon, di cui faceva parte Mike Rutherford (chitarra e basso) e i Garden Wall con Peter Gabriel alla voce solista, Anthony Phillips alla chitarra, Tony Banks al piano e Chris Stewart alla batteria (presto sostituito da John Mayew).

La dipartita di Phillips e Mayew, sostituiti rispettivamente da Steve Hackett e Phil Collins, dà appunto origine alla formazione che ha conosciuto il successo più fulgido nell’àmbito del progressive rock.

Per parlare dei Genesis è opportuno però dividere nettamente i due periodi: quello iniziale con Peter Gabriel e quello successivo alla sua defezione perché, benché rivestisse solo il ruolo di cantante senza cimentarsi con virtuosismi strumentali, a lui si deve la costruzione di quell’impronta immaginifica, fondamentale anche dal punto di vista scenografico sul palco, grazie ai ripetuti travestimenti, capaci di creare l’inconfondibile marchio Genesis che va oltre il semplice impatto musicale, spingendosi verso performances di tipo teatrale.

Nursery Crime” (1971), “Foxtrot” (1972), “Selling England by the pound” (1973) e “The lamb lies down on Broadway” (1974), rinforzàti dal live del 1973, appaiono quegli episodi imperdibili che hanno visto il cantante come protagonista assoluto.

A trick of the tail” (1976) registra appunto la sua defezione che provoca un indiscutibile cambiamento, non tanto relativo alla voce solista a cui si adopererà il batterista Collins miracolosamente dotato di un timbro di voce assai simile a quello del suo predecessore, da far faticare non poco gli affezionàti ascoltatori a distinguere quel timbro roco per entrambi sulla falsariga di quello di Roger Chapman dei Family, bensì proprio come visione d’insieme della loro musica, divenuta nel tempo più asciutta ed essenziale, perdendo gradualmente, accanto alla pregressa magia, anche le prestazioni di Hackett.

Rimasti in tre, come testimoniato dal titolo di un loro prodotto “And then there were three” (1978) hanno continuato senza più sussulti con una musica più vicina al pop e con un Collins divenuto (approfittando anche della sua fortunata carriera solista) sempre più front man dal vivo, rinunciando quasi totalmente al suo strumento affidato a gregari.

Ma anche l’epopea di Collins è destinata a finire perché nel loro album “Calling All Stations” ultimo dal lontano 1997, sarà assente e il ruolo di voce solista sarà assunto dal carneade Ray Wilson.

 

Emilio AURILIA

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