MDN

LED ZEPPELIN

 

DI EMILIO AURILIA

 

 

Quando negli Yardbirds di cui abbiamo trattato alcune settimane fa, il chitarrista Jeff Beck venne affiancato dal nuovo entrato Jimmy Page col passaggio di Chris Dreja al basso per la fuoriuscita di Paul Samuell-Smith, Page diventerà l’unico solista dopo che anche Beck abbandonerà la formazione.
Il chitarrista non risentirà dello scioglimento della band avvenuto poco dopo, ma raccoglierà le forze per mettere insieme con Dreja un nuovo gruppo, The New Yardbirds che comprenderà inoltre il cantante Terry Reid e il batterista Paul Francis che abbandoneranno subito seguiti da Dreja che lascerà la musica per la fotografia.
Tali defezioni, invece di causare la fine di tutto, saranno la fortuna di Page perché con i nuovi arrivati Robert Plant alla voce, John Bonham alla batteria provenienti dalla Band of Joy e il già noto session man John Paul Jones a basso, piano, organo e flauto, inizieranno una nuova avventura dopo aver mutato il nome in Led Zeppelin (pare suggerito da Keith Moon batterista degli Who).
Non impiegano molto a farsi conoscere grazie alla brillante scelta di Peter Grant come manager, sotto la cui guida incideranno il primo album che porta il loro nome (1969), seguito un anno dopo da “Led Zeppelin II”, da molti considerato il loro capolavoro che li farà conoscere in tutto il mondo grazie al brano di punta “Whole Lotta Love” e l’indimenticabile riff di “Moby Dick”. Il successo è tale che il successivo “Led Zeppelin III” viene pubblicato in molti paesi compreso il nostro, con la copertina provvisoria! È in effetti un disco di grande rilievo perché per la prima volta alterna l’hard rock con cui sono conosciuti, a molti elementi folk acustici come nel rifacimento del traditional “Gallows Pole” con uno stratosferico Page al banjo, la sognante “That’s the way” arricchita da strumenti acustici come mandola e clavicembalo affidati a Jones e “Bron-Y-Aur stomp”, scarna ma efficace. Figura inoltre “Since I’ve Been Loving You”, un lungo blues inciso dal vivo in studio con Jones all’Hammond e contemporaneamente ai bass pedals per supplire all’assenza del basso. E c’è addirittura spazio per un brano squisitamente pop composto interamente dal chitarrista (“Tangerine”).
Ma se fino a quel momento il nome della band era associata indissolubilmente a “Whole Lotta Love”, sarà l’arpeggio iniziale della lunga sognante “Stairway To Heaven” del nuovo album a soppiantarla: un pezzo dall’inizio pieno di ricami acustici a sostenere un testo molto lirico e intenso magistralmente cantato da Plant, sfocerà poi in un chitarrismo tanto aulico quanto ruvido che richiamerà gli stilemi di sempre. Oltre al citato brano di punta l’album vive anche dell’iniziale travolgente “Black Dog” e la seguente “Rock And Roll”. Curiosamente simpatica l’immagine del vecchietto che raccoglie le fascine all’interno di un bosco, a far da copertina al disco.
“House Of The Holy” (1973) che con la stupenda “No Quarter” pone ancora una volta la band a cimentarsi con la sperimentazione di nuove sonorità (qui è la volta di un jazz sospeso), è l’ultimo album degno di menzione poiché con i prodotti successivi non riuscirà ad esprimersi ai livelli precedenti, incamminandosi verso l’immancabile scioglimento anche a causa del decesso di Bonham, seguito da una riunione intorno al 2000; riunione in tour più celebrativi che convinti, come avviene con gruppi molto amati da pubblico e critica.

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