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SUONO E MANIPOLAZIONE Intervista a Clov

 

A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage

 

L’artista Piero Prudenzano, in arte Clov, ha raccolto ancora una volta sonorità del tutto originali e le ha racchiuse all’interno di un nuovo concept album, Every love story is a death story, collezione intensa di sfaccettature tratte da una love story, da una relazione. Il lavoro, che già dal titolo promette spettacolo, è figlio della pandemia, della quarantena e, ahimé, di una personale e non proprio piacevole situazione sentimentale. Clov, che cita tra le sue influenze persino l’assurdo, rumoroso e affascinante Metal Machine Music di Lou Reed o l’opera di Bowie, giusto per farvi capire il background dell’autore, è sicuramente un personaggio da seguire con attenzione e, soprattutto, da scoprire. Parliamo di tutto o quasi con il diretto interessato, un ragazzo che continua a giocare seriamente con la musica, dichiarando al contempo di non voler prendere nulla così seriamente. Insomma, tipico dei grandi…

 

Benvenuto, Piero, è un piacere averti qui. Racconta subito ai lettori chi sei e che cosa fai?

 

Ciao Riccardo, da dove cominciare? Sono uno che, come tanti, ha iniziato a strimpellare la chitarra durante l’adolescenza per poter rimorchiare meglio ai falò in spiaggia. Non ha mai funzionato. Così ho provato a metter su qualche band e per anni mi sono divertito a suonare noise e punk. Quando mi sono trasferito a Bologna ho iniziato a scrivere e a suonare da solo, che si addice meglio alla mia indole narcisista e solitaria. Adesso diciamo che sono un insegnante di sostegno appassionato di film di serie Z che nel tempo libero fa musica in cameretta. Per la gioia dei miei vicini di casa.

 

Ti definisci un manipolatore di suoni e, ascoltando la tua musica, è impossibile non essere d’accordo. Sperimentazione e ricerca al servizio dell’arte e della libertà espressiva sono le principali chiavi di lettura. Ecco, come nasce la musica di Clov?

 

Tutto è nato con la scoperta del circuit bending, che in breve consiste in un’alterazione dei circuiti di dispositivi e apparecchi elettronici, principalmente vecchi giocattoli che trovavo ai mercatini dell’usato, per tirare fuori suoni bizzarri e atipici. Da queste sperimentazioni è nato This is not Woodstock, il mio primo lavoro. Un disco dalla libertà assoluta ma un po’ ostico da ascoltare, una sorta di personale omaggio a Metal Machine Music di Lou Reed. Qualche anno dopo è uscito It’s all fun and games until someone loses an eye che riprende parte del noise del disco precedente ma inizia a pendere verso un pop sghembo e lo-fi che ritroviamo, ancora più pulito e scorrevole, in questo terzo disco. Una evoluzione o un percorso verso una musica più neutra, orecchiabile. O verso la vecchiaia.

 

Every love story is a death story è il tuo terzo interessantissimo lavoro in studio, un concept ricco di situazioni e di viaggi. Il tema del disco è l’amore, o meglio, il carico dei sentimenti che colorano una relazione, una storia. Quando hai sentito il bisogno di ritrarre tutto ciò e, soprattutto, perché?

 

All’inizio l’idea non era così netta, non c’è stata immediatamente la volontà di creare una sorta di concept album. La maggior parte delle tracce però sono state scritte durante il primo lockdown, un periodo già di suo per niente semplice, accompagnato da una relazione anch’essa per niente facile.

Man mano che scrivevo e riflettevo sul mio essere davvero una gran testa di cazzo, senza prendermi troppo sul serio o risultare pedante (spero), ho portato avanti l’idea del raccontare l’evoluzione di una relazione e soprattutto il fallimento della stessa. L’approccio era modesto e l’andamento svogliato, senza la pretesa di dare chissà quale grande verità, solo voglia di narrare una storia.

Il disegno non prevede un lieto fine: l’attrazione, la fiamma, la passione, ma anche la delusione, la fine della storia. I brani assumono le giuste sembianze a seconda dei momenti, aspetto a dir poco significativo. Un discorso del genere, a dispetto dell’anarchia musicale, non si costruisce dall’oggi al domani. Quanto tempo hai impiegato per trovare la quadra?

 

All’inizio, come detto, non sapevo dove questa storia mi avrebbe portato. Anzi, non avevo la minima idea di dove andare a parare. A volte iniziavo a registrare i pezzi senza avere un’idea chiara degli arrangiamenti, che venivano fuori man mano che aggiungevo strumenti, venivano alterati, scambiati, cancellati e distorti. Altre volte sapevo già quale messaggio simbolico trasmettere e mi sforzavo di inciderlo con cura. Il fatto di dover registrare in cameretta tutti gli strumenti, da solo, mi ha dato una grande libertà per quanto riguarda la sperimentazione e la ricerca personale fuori da schemi prestabiliti. Dall’altra parte però, essendo un indeciso cronico, continuavo a modificare i suoni, rifarli dall’inizio, tornarci spesso su. Fondamentale l’incontro con Vittorio Gentile, che si è occupato del missaggio del disco, e il suo salvifico mantra:  «Se mi mandi un’altra traccia ti meno!»

 

Rock, noise, psichedelia, elettronica e molto altro, folk compreso. Tutto volutamente lo fi, ma non per questo meno intenso o meno azzeccato. Domanda secca: Every love story is a death story può collocarsi in un determinato genere? Io credo di no…

 

Si tratta di un richiamo alla psichedelia e al no-wave, che smantella la forma rock riducendola a spasmi infinitesimali che si alternano a eruzioni noise, tuttavia molto slabbrate, fino a vortici quiet-louds e rigogliose geometrie strumentali.

 

A confermare quanto detto, per esempio, le atmosfere cupe, la distorsione di We Have Everything/Nothing, ma anche le ballate delicate Cats o, chiaramente, The Ballad Of A Running Man. Disinvoltura e naturalezza o sfida continua?

 

Direi ingenuità e spensieratezza, voglia di provare a unire sperimentazioni rumoristiche con melodie pop, con quel pizzico di mancanza di capacità nel suonare tutti i generi che mi piacerebbe mescolare. La scrittura, a differenza degli arrangiamenti, è venuta naturale. Scrivevo quello che volevo e come mi veniva, senza dar conto a etichette, regole o quant’altro. I punti deboli ci sono in questo disco, ovviamente, ma ho cercato di valorizzarli con un chiaro: “è questo quello che so fare, vi piaccia o no, mi diverto a suonarlo”.

 

Come detto, ami giocare con gli effetti, con i rumori e con i sintetizzatori. Cosa hai portato di nuovo per l’occasione?

 

L’anno scorso, mentre sgomberavo la cantina di una vecchietta, ho ritrovato un bellissimo sintetizzatore Roland dell’85 perfettamente funzionante. Amore a prima vista. Portato a casa e, dopo qualche ora a smanettare, l’ho utilizzato per registrare la parte di All through the house, brano che all’inizio era stato pensato per sola chitarra acustica e voce. Completamente stravolto. Questo mi ha portato a uscire dal mio isolamento e a contattare amici per aggiungere strumenti, registrazioni, loop. Ho chiesto loro di suonare liberamente, io registravo tutto. Poi è iniziato il lavoro di smantellamento e ricostruzione di queste registrazioni fino a ottenere i suoni che cercavo. Un lavoro lungo ma divertente.

 

Chi ha collaborato con te durante le registrazioni?

 

Ho approfittato prima di tutto dei miei vicini di casa, Chiara Archetti (i sassofoni di All through the house) e Marianna Calabrese (la splendida voce che sentiamo in due brani). Poi, man mano che venivano fuori idee ho iniziato a “scocciare” altri amici. Così ho coinvolto Silvia Natali e Justin Viorel per le parti di violino, Luciano Pirulli (Per un pugno di funk) e Jacopo Fiore (Hysm?) per le batterie e il già citato Vittorio Gentile per mix e master del disco. Ovviamente devo ringraziare anche Martina Caprioli che ha disegnato la copertina e si è occupata della parte grafica. Convincerla a tornare a dipingere e soprattutto starle dietro per farmi consegnare la copertina in tempo è stata la parte più difficile, ogni volta che la chiamavo era a potare qualcosa. Probabilmente era una scusa.

 

Quali sono i brani del pacchetto che preferisci? Te lo chiedo perché penso che sia difficile estrarre qualcosa, un singolo. Molto meglio, oltre che giusto, gustare il lavoro nella sua completezza.

 

Sono d’accordo con te. Ma dovendo scegliere direi Cats, un pezzo che è nato a disco quasi finito, durante una serata dove mi avevano chiesto di musicare una lettura di brani tratti da Una donna e altri animali di Brunella Gasperini. Brano nato per caso e inserito all’ultimo momento, sostituendo una ballata per sola chitarra acustica e voce con forti rimandi a Bob Dylan (con tanto di armonica a bocca). Direi potrebbe essere questo il singolo che, per essere più catchy, ho chiamato “gatti” perché si sa, sti animaletti piacciono.

 

Gli artisti che devi ringraziare? Quelli che ti hanno influenzato maggiormente nel corso degli anni…

 

Le influenze sono tante. Mi piace ascoltare musica dai generi più eterogenei e farla ascoltare ai miei amici magari suonando qualche pezzo durante una festa o una cena. Di solito è una disfatta che si conclude col classico: «Dai, suona le bionde trecce!»

Comunque per fare qualche nome ti direi gli U.S. Maple, i Fugazi, Daniel Johnston, Bowie, quel folle di Mike Patton o Battiato. Mentre, durante le registrazioni, ho ascoltato molto gruppi come gli Andrew Jackson Jihad o la roba solista di Jad Fair.

 

Live. Non è facile portare un disco come questo dal vivo. Come ti stai organizzando?

 

In realtà non ho mai suonato tanto dal vivo la mia musica, ancor meno da solo. Questo perché soffro di piccole crisi di ansia quindi espormi al pubblico mi ha sempre dato qualche problema. Con questo disco però sto provando con un approccio diverso che non prevede, per ora, lo Xanax. Grazie a un amico, il buon Steven Lipsticks col quale suonavo garage qualche anno fa, stiamo arrangiando i pezzi diversamente, più acustici e con vari innesti di drum machine. È una persona della quale mi fido e un ottimo musicista. Magari insieme si riesce a condividere l’ansia. Vediamo cosa ne viene fuori.

 

Una cosa che non ti ho chiesto e che vorresti dire?

 

La classica: progetti per il futuro? Ho iniziato a scrivere dei pezzi per il prossimo disco, questa volta sarà in italiano con qualche bella hit dell’estate. Forse l’ultima parte sarebbe meglio evitarla.

 

Saluta i nostri lettori, allegando magari tutti i tuoi link di riferimento…

 

Ciao a tutte e tutti e grazie Riccardo per la piacevole intervista. Se vi va potete ascoltare il mio lavoro su Bandcamp (clov.bandcamp.com) o su Spotify e Youtube. Mi trovate anche su Ig (im_clov) o nei peggiori bar della città.

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