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THE WHO

The Who pose for a press call, July 1971, Surrey, United Kingdom, John Entwistle, Keith Moon, Pete Townshend, Roger Daltrey. (Photo by Michael Putland/Getty Images)

 

Articolo di Emilio Aurilia

Se parlare dei Jethro Tull cui mesi addietro abbiamo dedicato la retrospettiva, sarebbe equivalso riferirci esclusivamente a Ian Anderson, dedicandoci ora agli Who potremmo affermare doverci dedicare soltanto a Peter Townshend, chitarrista e maggior compositore della band. Ma non è proprio così perché, benché il citato chitarrista abbia scritto il maggior numero di composizioni e svolto indubbiamente il ruolo di leader, il gruppo ha annoverato almeno altri due elementi di spicco: un importante frontman nella figura del cantante Roger Daltrey e un poderoso batterista nella figura del compianto Keith Moon e, per non far torto a nessuno di loro, è fondamentale ricordare anche il quarto elemento (peraltro fondatore), il taciturno bassista e polistrumentista John Entwhistle (purtroppo anch’egli deceduto) che pure ha composto brani interessanti.
Destano l’attenzione del pubblico molto presto, nel 1964, in piena beatlemania con il brano “My Generation” a fotografare pienamente il costume dell Swinging London di quegli anni, da Mary Quant alla rivalità fra Rockers e Mod, le due bande di teppisti che tanto rumore hanno generato al tempo e che gli stessi Who stigmatizzeranno con brani come “The Kids Are Allright”.
Dal lato strettamente musicale gli inizi sono esclusivamente impostati su di un facile beat rock con brevi brani e poche evoluzioni strumentali poi, negli anni, il loro rock s’irrobustisce acquisendo elementi blues senza mai arrivare all’hard vero e proprio, benché ci si sia avvicinato molto soprattutto nelle esibizioni dal vivo in cui l’unico motore (a differenza degli album in studio in cui sono state presenti tastiere e altri strumenti) è Townshend e la sua Gibson Diavoletto che distruggerà sul palco al termine della esibizione, creando una sorta di rito desiderato dagli spettatori com’è avvenuto a Woodstock.
Nel 1969 il chitarrista scrive “Tommy”, una rock opera su di un giovane disadattato che si salverà grazie alla sua passione per il flipper e che resterà un suo costante pallino bissato da “Quadrophenia” (1973), un nuovo concept.
Fra i due episodi si collocano forse le cose migliori del gruppo: l’album dal vivo “Live at Leeds” (1970), a rappresentare un po’ la summa di ciò che la band ha realizzato fino a quel momento dalla citata “My Generation” a “Summertime Blues”, “Happy Jack” ecc. e “Who’s Next” (1971) che, sotto la guida spirituale di Baba O’ Riley così come avvenne per i Beatles col Maharishi, registreranno un album di notevole impatto con “Won’t Get Fooled Again” e “Baba O’ Riley” in apertura.
Come accaduto ad altri gruppi, arriva il momento degli sfoghi personali con la registrazione di album solisti, non fondamentali per il prosieguo della storia del rock.
Dopo “Quadrophenia”, da cui sarà ricavato un film così come da “Tommy”, la band non si ripeterà più ai noti livelli anche perché attraversata da due lutti importanti: in particolare il decesso di Moon nel 1978 in piena attività, sostituito da Kenney Jones dei Faces e poi di Entwistle, avvenuto nel 2002, quando ormai il complesso non aveva più nulla da dimostrare, continuando a vivere per molti anni di episodi dal vivo e numerose antologie.
Attualmente Daltrey e Townshend continuano l’attività coadiuvati da session men, fra cui il batterista Zak Starkey, figlio del mitico Ringo Starr e Simon Townshend, fratello del chitarrista.
Consentitemi una citazione assolutamente personale: “I’ve Been Away”, B side del singolo “Happy Jack”; un delicato valzer lento di Entwistle condotto da voce e pianoforte, un gioiellino pressoché sconosciuto tutto da ascoltare.

 

 

 

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