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TOMMY La grande opera rock degli Who

A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage

Tommy Walker è un campione di flipper. Prima però parliamo della sua vita di merda. Ehi, non parliamo di ostacoli da superare, di problematiche più o meno comuni, di sfighe o di disavventure varie. Una vitaccia davvero di merda, e la parola merda non definisce nemmeno bene il quadro. Ehi, il povero Tommy è nato appena dopo la fine della prima fottuta guerra mondiale e ha assistito, tramite il riflesso di uno specchio, all’uccisione del nuovo compagno di sua madre da parte del padre aviatore, che tutti credevano morto in battaglia, ma che invece è tornato a casa… un po’ troppo tardi. Cioè, al signor Walker non è affatto piaciuto vedere sua moglie con un altro e non ammette nessun tipo di giustificazione. Omicidio, allora. Il piccolo Tommy rimane sconvolto dall’atto di violenza e i suoi vogliono che lui taccia, che non veda e che non senta più nulla. Scioccato in maniera permanente, il poveretto smette di parlare, di vedere e di sentire. Per giunta, quello stronzo di suo zio inizia ad abusare di lui e il cugino a prenderlo per il culo. Chiunuqe potrebbe fargli del male, tanto la sua voce non esiste più e non potrebbe mai gridare o denunciare soprusi. Non c’è cura apparente e l’unica salvezza potrebbe giungere soltanto con la morte. Ma non può morire, Tommy, perché sta per scoprire il suo immenso talento, un talento nato dal proprio addestratissimo tatto, che merita di vivere e di essere narrato. Lui ora è davvero un fuoriclasse del flipper. E non solo flipper, perché una volta libero dalla prigionia, egli è diventato anche un guaritore, una guida spirituale, una sorta di divinità in terra.
Ci vorrebbero un film e un libro, ci vorrebbe una sceneggiatura teatrale, oppure ci vorrebbe una grande rock band per raccontare una storia così triste e al contempo assurda. E Pete Townshend, che è leader di una grande rock band, si prende così briga e responsabilità. Dopo aver concepito l’amara vicenda, ispirandosi alla dottrina del maestro indiano Meher Baba (e qui si spiega il discorso spirituale tra le note e tra le parole dell’album), il chitarrista (spesso cantante) e compositore dei gloriosi Who, scrive forse la più importante opera rock di sempre, l’immortale capolavoro del 1969 Tommy. Vero, gli Who quattro anni dopo tireranno fuori e suoneranno una storia di simile livello, Quadrophenia, ma oggi soffermiamoci sul mago del flipper diventato santo.
Townshend è già un musicista straordinario e importantissimo, ma un concept folle come quello da lui elaborato può apparire incredibilmente complicato da realizzare e qualcuno, soltanto a immaginarlo, potrebbe riderci anche sopra. Ma le grandi idee, soprattutto le più strampalate, vanno portate avanti, con tutti i rischi del caso. Dopo aver coinvolto gli amici Roger Daltrey (voce), John Entwistle (basso), Keith Moon (batteria) e il produttore Kit Lambert, l’influente chitarrista britannico si mette dunque al lavoro. In fondo ha una sinossi dalla quale partire e dei grandissimi compagni accanto. Ma come trasferire su nastro ogni singola scintilla dell’ispirazione? Per esempio, il giovane protagonista Tommy, che da copione non può esprimere le proprie emozioni, potrebbe affidarsi alla musica, alla vibrazione del suono, a un tema capace di caratterizzarlo nel corso della narrazione. Il suo mondo è irreale e la sua purezza è intatta, tanto da far tenerezza. E se suo papà Townshend è riuscito a salvare la propria vita e a comunicare le sensazione attraverso la musica, lui può riuscirci grazie al flipper. Sì, Tommy può anche essere considerato l’alter ego del compositore e questa è un’interessante metafora, capace di legare in modo inossidabile autore e personaggio.
Otto lunghi mesi di registrazioni, di tagli, di cose da cestinare e da rifare. E considerata la mole, anche il mixaggio diventa un parto estenuante. Roba da uscire di testa, insomma. Per fortuna, cascate di sovraincisioni e di sbattimenti a parte, Tommy vede finalmente la luce e non può passare inosservato. Pop rock, per essere molto vaghi, di assoluta potenza e di immensa ricchezza, una collezione pressochè infinita di suoni e di strumenti a elevare canzoni immortali come Pinball Wizard, I’m Free, Christmas, It’s A Boy, 1921 e See Me, Feel Me. Le basi acustiche di Townshend, unite alla sensibilità ritmica di Entwistle e del compianto Moon, uno dei geni della batteria e delle percussioni, assumono così tratti perfetti e globali. A chiudere il cerchio, la voce principale del grande Roger Daltrey, frontman figo, sfrontato e potente come pochi altri. Tommy è un disco che pesa almeno quanto il mondo, un lavoro che ancora oggi ci lascia a bocca aperta e che, spesso senza nemmeno capirlo, continua a ispirare la musica rock attuale.
La copertina è di Mike McInnerney, personaggio appartenente alla controcultura londinese dei ‘60, il tizio che, non a caso, aveva a cuore gli insegnamenti di Meher Baba. L’artwork rappresenta a pieno l’idea di Townshend; una sfera azzurra dai tratti sognanti; una sorta di gabbia; gli Who all’interno delle fessure; nuvole e colombe bianche a contrapporsi all’oppressione, con conseguente liberazione da parte del giovane Tommy. Cosa dire, immagine perfetta per l’album e, a detta di Townshend, un trionfo artistico da accoppiare alle musiche e ai testi.
Ci vorrebbero un film e… appunto! E sì… Nel 1975, il celebre regista inglese Ken Russell decide di portare sul grande schermo il disco, prendendosi tuttavia qualche licenza. Il lungometraggio è una chicca che vede partecipare, oltre a Daltrey nei panni dell’adulto Tommy e a Moon in versione zio Ernie, artistoni del calibro di Elton John, Tina Turner o Eric Clapton e attori importanti come Jack Nicholson, Robert Powell o Ann-Margret Olsson. Quando ho parlato poco fa di un progetto impossibile da non prendere in considerazione, ieri come oggi, mi stavo riferendo più o meno a questo.

 

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