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UNA VOCE PER FOLSOM Hello, I’m Johnny Cash

 

A cura di Riccardo Gramazio (Ricky Rage)

 

At Folsom Prison, celebre lavoro di Johnny Cash, inciso dal vivo il 13 gennaio del 1968, è sicuramente tra i dischi più significativi di sempre, l’opera clamorosa dell’iconico cantautore in nero.

A dire il vero, l’idea di un concerto gratuito per i detenuti del carcere di massima sicurezza di Folsom, cittadina nei pressi di Sacramento, non piacque proprio alla Columbia, anzi, la casa discografica provò a opporsi con convinzione. In effetti l’operazione, oltre che rischiosa per molti aspetti, avrebbe potuto inferocire e indignare l’opinione pubblica, già piuttosto divisa e frastornata. Il momento storico del resto non è certo ricordato come uno dei più sereni. Stiamo parlando del Sessantotto, di un periodo a dir poco intenso a livello politico e culturale, di un fenomeno convulso e caratterizzato dalle continue manifestazioni della classe operaia, degli attivisti per i diritti civili, degli studenti o delle varie minoranze etniche. Alla base di tutto, la voglia di contestare, di contrastare e di abbattere un sistema afflitto dal pregiudizio istituzionale e sociale. Insomma, a conti fatti, un’esibizione esclusiva per i carcerati, per gli individui ripudiati dalla società, per la cosiddetta feccia, avrebbe sicuramente suscitato polemiche e, nel peggiore dei casi, avrebbe fatto sprofondare la carriera di Johnny Cash. Ma c’era immensa poesia nello spirito e nel volere del grande folk- singer di Kingsland, Arkansas, poesia purissima, destinata a prendersi un posto importantissimo nella storia della musica. Egli sentì probabilmente l’obbligo di ringraziare un pubblico fedele, profondamente immerso nella durezza delle vicende da lui cantate e vicinissimo alle tematiche trattate nei testi. E poi, The Man in Black di problemi con la legge ne aveva avuti diversi, più che altro storie di ubriachezza o di possesso di stupefacenti, ma che insieme andarono a caratterizzare la sua figura da idealista e da sentimentale brigante.

L’empatia con i circa duemila condannati di Folsom nelle due distinte esibizioni fu di conseguenza davvero straordinaria e l’album, che alla fine la Columbia pubblicò, vendette milioni di copie.

Il cantautore, in parole semplici, vinse la sua scommessa.

At Folsom Prison mostrò un artista perfettamente a proprio agio nel contesto. Non mancarono infatti scambi di battute tra lui e il pubblico, e non mancarono le calorose approvazioni, anche se qualche effetto venne aggiunto e sovrainciso in un secondo momento.

La pubblicazione originale presentò sedici canzoni, tra le quali proprio la dedica al carcere, Folsom Prison Blues, già pubblicata in precedenza nel 1956 come singolo, e Greystone Chapel, scritta da Glen Sherley, uno dei reclusi. Particolarmente curiosa la storia di quest’ultima, inclusa nella scaletta del concerto soltanto la notte precedente, quando un prete consigliò a Cash di ascoltare la composizione incisa su nastro da Sherley. Il brano piacque al cantante, che chiuse in bello stile l’esibizione, interpretando il brano alla perfezione.

Da notare la mancanza di superclassici come I Walk the Line o Ring Of Fire, pezzi forti del repertorio, ma probabilmente meno vicini per argomenti e per concetti al pubblico del penitenziario.

L’album appare ancora oggi come una raccolta di storie, di fotografie bellissime, riguardanti la vita, la morte, la solitudine, il dolore, ma in fondo anche la redenzione. Storie in pieno stile Johnny Cash, immensa voce di un’America viva e peccaminosa, voce forte e allo stesso tempo tormentata, piena zeppa di sfaccettature tanto mitiche quante umane.

The Man in Black, l’eroe romantico del country, l’artista che attraverso la musica omaggiò i ripudiati, gli scomunicati dalla società. Criminali, certo, ma ancor prima uomini.

«Hello, I’m Johnny Cash…»

 

 

 

 

 

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