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ELTON JOHN

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Articolo di Emilio Aurilia

Parlare di lui a più di cinquant’anni dall’inizio di un’attività che continua tuttora dopo trentaquattro album di studio più dischi dal vivo, antologie e concerti, saltabeccando sui trascorsi musicali e sulle conclamate intemperanze da star, sembra retorico.

La sua storia musicale somiglia molto a quella di un altro cantante che ha attraversato il mondo del rock per tutti gli anni settanta: Rod Stewart.

I due, pur avendo poco in comune a livello strettamente musicale, hanno presentato invece molte analogie relativamente al successivo modo di porsi nel ruolo che sono andati negli anni a coprire, dirigendosi verso atteggiamenti fastidiosamente capricciosi da star, e ad una maggiore attenzione alla qualità della loro immagine che a quella dei loro prodotti musicali.

Cominciamo anzitutto con lo pseudonimo con cui l’inglese Reginald Dwight (questo il suo nome vero) è stato poi conosciuto: nei Bluesology, uno dei primissimi gruppi in cui ha militato, era presente il saxofonista Elton Dean e contestualmente Long John Baldry, già conosciuto in ambiente musicale, ha voluto la band come propria. Pare che il nickname sia sorto proprio dalla fusione dei due nomi citati.

Pur maturando la propria esperienza negli incontri con musicisti già importanti e suonando per loro, Elton John ha sempre sentito negli anni il bisogno di costruirsi uno spazio personale.

Senza ombra di dubbio l’immagine di codesto pianista timido, biondo, occhialuto e slavato alle prese con le sue elucubrazioni perfettamente descritte da Bernie Taupin, suo paroliere di sempre, nel giro di pochi anni e grazie al riuscito singolo “Your Song” dall’album del 1970 che reca il suo nome, cominciano a farne un personaggio i cui primi prodotti musicali sono molto accattivanti: ballate pianistiche spesso in formazione cameristica (piano+basso+batteria) si alternavano ad episodi decisamente più rock sovente macchiati di blues e che si perfezionerà in pochi anni e con i due album imperdibili “Tumbleweed Connection ” (1970), pieno di suggestioni country rock americano e “Madman Across The Water” (1971)” che vivranno di forza propria.

Ma è dal seguente “Honky Chateau” (1972) da cui verrà estratto il notevole singolo “Rocket Man” che Elton raggiunge la popolarità che diverrà sempre maggiore specialmente coi singoli estratti dai successivi album: “Daniel” e la ballabile “Crockodile Rock”, un disimpegnato sha la la stile anni cinquanta, entrambi da “Don’t Shoot me, I’m Only The Piano Player” (1973); l’immortale “Candle In The Wind” e “Goodbye Yellow Brick Road” dall’ambizioso album omonimo danno definitivamente la stura a ciò che si diceva all’inizio: morbida ballata pianistica in singolo o no, a sostenere il nuovo prodotto e non più comportamenti di composta umiltà con abbigliamento minimalista composto da maglietta chester e jeans, bensì completi policromi, fantasiosi e kitch in vivaci tinte pastello, tacchi di venti centimetri, copricapo impossibili e occhiali delle dimensioni di quelle dei clown.

Lo schema non cambierà negli anni e perfino il divorzio da Taupin, sostituito da Gary Osborne sarà solo temporaneo per riprendere il cliché conosciuto e immutabile da consacrato artista che, non dovendo dimostrare più nulla a pubblico e critica, comincerà a rilasciare interviste da divo chiacchierando più dei suoi fatti personali (sessuali compresi) che della musica vera e propria.

 

 

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