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NEBRASKA – La vena più amara di Springsteen

Articolo di Riccardo Gramazio

Nella sua autobiografia il boss racconta che le canzoni di Nebraska, tutte scritte di getto, avevano le stesse profonde radici. Le immagini offerte da quella raccolta di pezzi erano figlie di una profonda e inconsapevole meditazione sui misteri dell’infanzia. Bruce Springsteen dipinse di fatto il vecchio mondo che aveva dentro e che non aveva mai davvero abbandonato. Al centro, le strade della gioventù, i posti frequentati, le persone incontrate e tutti gli altri antichi fantasmi della memoria. Il passato, quindi, a ispirare la composizione, ma anche i grandi della letteratura americana, le notti prive di sonno e i momenti di depressione. Nebraska fu l’amaro risultato di tutte quelle forze, di quelle viscerali emozioni, la testimonianza più intima di un lungo e intenso pensiero.
Con le nuove creature in mente, Springsteen chiese al suo fedele tecnico delle chitarre di trovare un registratore a cassette leggermente migliore di quello che solitamente utilizzava per la realizzazione delle bozze. L’uomo tornò presto con un Tascam 144 a quattro piste, che venne piazzato nella camera del cantautore. L’apparecchio in questione non poteva offrire molto, per l’appunto la registrazione di quattro tracce per brano. Occupate ovviamente quelle per la voce e per la chitarra, ne restavano soltanto due per decorare i brani. Il lavoro di incisione fu ultimato in poco tempo, tre o quattro take per canzone. Una volta mixate le tracce, il boss si recò in studio con la E-Street Band per elaborare il tutto e per realizzare un nuovo grande album, il degno successore dell’acclamato The River. Tuttavia gli arrangiamenti studiati con il gruppo non lo convinsero affatto. Ovvio, qualitativamente parlando il sound risultò senza dubbio migliore, più ricco e pulito, ma a suo modo di vedere molto meno suggestivo e spontaneo. Per non perdere il calore delle prime versioni, Springsteen capì davvero cosa fare: il Nebraska che tutti conosciamo è proprio quello contenuto nella cassetta originale e che nel settembre del 1982 la Columbia decise, seppur con perplessità, di pubblicare.
Sempre nel libro che racconta la sua vita, la rockstar del New Jersey presenta il disco come una collezione di tenebrosi racconti della buonanotte, di favole provinciali che richiamano l’opera blues di John Lee Hooker e di Robert Johnson, i romanzi noir di James M.Cain (tra gli altri, Il postino suona sempre due volte, 1934 e Mildred Pierce, 1945) e il film La morte corre sul fiume di Charles Laughton, del 1955. Nebraska è un album ambizioso e sublime, come consiglia lo stesso autore, da ascoltare e da assaporare a luci rigorosamente spente. Le storie cantate da Bruce sono animate ancora una volta dai perdenti, dai falliti, dagli spiriti disillusi di un’America che non è, ahimè, la terra promessa. Ora però tutto sembra più cupo e sinistro, nonostante l’assoluta leggerezza della scelta musicale. Una sorta di ossimoro artistico: testi crudi e taglienti, accompagnati quasi totalmente dalla chitarra acustica e dall’armonica. Violenza, perdizione, disincanto e malinconia impregnano il disco dall’inizio alla fine, affidandosi proprio alle sonorità scarne, ai ritmi lenti di matrice folk e alla voce a tratti spettrale di chi ha concepito e dipinto il grigio quadro. Difficile pescare qualcosa di buono dai sentimenti o dalle emozioni dei protagonisti. Tutti sono prigionieri del proprio disagio morale, un buco freddo e pericoloso. Abbiamo assassini seriali destinati alla pena di morte (Nebraska e Johnny 99), abbiamo le vittime della crisi economica, precari o disoccupati, disposti a tutto pur di campare (Atlantic City), abbiamo la vita apatica della periferia e i ricordi di un passato forse un po’ meno severo (Mansion on the Hill). Altra canzone rappresentativa e amatissima è sicuramente Highway Patrolman, che racconta il rapporto conflittuale tra due fratelli, il primo poliziotto e il secondo delinquente. Lupo solitario film del 1991 diretto da Sean Penn è del tutto ispirato al brano.
Nebraska è una pietra miliare nella storia della musica internazionale, forse il disco più importante e introspettivo di Springsteen.
Se non dovesse bastare ciò che ho scritto, aggiungo un’ultima chicca. Nel corso di quelle mitiche sessioni di registrazione, saltò fuori un pezzo, qualcosa che due anni più tardi, nel 1984, proiettò Bruce Springsteen nel sacro Olimpo del rock, in maniera definitiva e senza alcuna possibilità di ritorno. Una versione acustica e in stato embrionale, sia chiaro, ma destinata a fare la storia. Vi passo solo un indizio: U.S.A.

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